15 Settembre, 2002
Equità
La voce *Equità*, presente nel libro *Partito Democratico, le parole chiave* Editori Riuniti 2007 é stata curata da Iginio Ariemma
Nel febbraio 1985 in un convegno tenutosi a Bologna che aveva come tema «Quale riformismo?» ci fu una garbata polemica tra Norberto Bobbio e Claudio Martelli proprio sui concetti di eguaglianza ed equità. Le definizioni che diede Bobbio in quella sede sono ancora valide. Intanto a partire da un punto: che la stella polare del riformismo socialista è la giustizia sociale o l’equità. Bobbio distingue l’equità dall’egualitarismo che è l’ideale dell’eguaglianza assoluta, cioè la dottrina di stabilire l’eguaglianza di tutti in tutto. Ideale non soltanto chiaramente velleitario, ma, come insegna l’esperienza tragica del comunismo e del socialismo reale, mol-to pericoloso e negativo perché inevitabilmente trascina con sé il soffocamento della democrazia e della libertà e genera violenza e terrore. L’equità invece introduce un rapporto di eguaglianza là dove prima vi era una rapporto di disuguaglianza eliminando una discriminazione. E fa alcuni esempi significativi che qui riprendiamo: l’estensione del suffragio alle donne, che ha parificato le donne agli uomini nel diritto di voto; la riforma del diritto di famiglia che ha eliminato la potestà maritale, rendendo la moglie non sol-tanto piú libera, ma anche eguale al marito; la liberalizzazione degli accessi all’università, che ha eliminato una discriminazione nei confronti dei giovani diplomati dalla scuola media superiore non liceale; la predella che permette il passaggio dei disabili sulle scale con le carrozzelle; la liberazione dei matti dalle istituzioni totali e cosí via. Come si vede sono tutti esempi di riforme liberatrici e insieme eguagliatrici, cioè riforme che liberando eguagliano o viceversa, eliminando una discriminazione percepita dalla società come odiosa o, dice Amartya Sen, come «disuguaglianza ingiusta», la quale c’è quando «l’assetto della società è tale da consentire a una parte dei cittadini una libertà personale inferiore agli altri».
La Costituzione repubblicana all’articolo 3 stabilisce: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».
La Costituzione quindi non si pone l’obiettivo dell’eguaglianza delle pari opportunità per tutti i cittadini, che è un ideale manifestamente impossibile da realizzare, ma piú realisticamente quello della giustizia sociale (o equità) cioè di intervenire per eliminare gli ostacoli che generano discriminazione e disuguaglianza e ridurre cosí il divario fra le opportunità di vita delle persone.
La politica equitativa certamente deve mirare a costruire una base comune per tutti i cittadini e soprattutto elevare quelli che stanno piú in basso nella scala sociale, ma nello stesso tempo deve sapere affrontare con spirito di giustizia i problemi delle minoranze e al limite i casi particolari. Questi ultimi sono il problema piú difficile, in quanto come raccomandava già Aristotele, nell’«Etica nicomachea», compito dell’equità è anche quello di «rettificare la legge là dove si rivela insufficiente per il suo carattere universale»; adattando la giustizia (e la legge che si rivela troppo astratta e troppo rigida) al caso particolare, singolo, al vissuto, alla circostanza dei concreti rapporti di fatto.
Il Partito democratico deve avere come stella polare del suo progetto politico e culturale e della sua azione l’equità. La libertà, nel suo significato piú profondo, sia di libertà negativa, come non impedimento, che positiva, intesa come autonomia, cioè come capacità di dare legge a se stessi, e la giustizia sociale sono i due pilastri che reggono la casa della democrazia. Citiamo ancora una volta Bobbio, il quale scrive che «il valore fondamentale che caratterizza la democrazia è l’eguaglianza… Tutti gli scrittori democratici esaltano lo spirito egualitario; gli scrittori antidemocratici lo condannano». Il principio di eguaglianza secondo cui è democratico quel regime che tende alla eliminazione del maggior numero di disuguaglianze fra gli individui e fra i ceti sociali, le comunità e i gruppi è incluso nella democrazia. Un principio – ripetiamo – che non va declinato in modo assoluto, ma relativo, al fine di introdurre equità e eguaglianza relativa tra i diseguali.
Insieme a questi esiste inoltre un terzo pilastro: la pace o meglio la non violenza. La costruzione della democrazia, di una democrazia solida e partecipata, comporta la condivisione di una ben precisa concezione della società e della storia che è assolutamente incompatibile con ogni progetto di trasformazione radicale della società e con ogni visione finalistica e totalizzante del corso storico, progetto e visione che sono propri del pensiero rivoluzionario. La democrazia è un insieme di regole, scrive Bobbio, che ha lo scopo «di rendere possibile la soluzione di conflitti di interesse senza che sia necessario ricorrere all’uso della violenza reciproca». L’equità ha come bussola il riformismo, non il rivoluzionarismo.
In questi ultimi decenni, a partire soprattutto dagli anni ottanta, la disuguaglianza è notevolmente aumentata nel mondo e anche in Italia. La causa principale della crescita di tali disuguaglianze non sta nella globalizzazione. La mondializzazione dell’economia non è incompatibile né con lo sviluppo né con una piú equa distribuzione del reddito. Dipende da come funziona e da chi vie-ne guidata. Anche qui la parola chiave è democrazia. Finora siamo ancora ben lontani da una globalizzazione democratica, in cui gli obiettivi a medio e lungo termine, a cominciare dal rispetto universale in ogni parte del pianeta dei diritti umani, civili e sociali, abbiano la prevalenza sulle speculazioni finanziarie a breve, e in cui quella che è stata definita la classe globale che domina i mercati e la finanza sia, per lo meno, sottoposta al controllo delle istituzioni democratiche internazionali e dell’opinione pubblica.
L’eccesso di ricchezza, sia a livello mondiale sia nei singoli Stati, in seguito alla quale piú denaro può comportare piú potere politico, sta minando alla radice la eguaglianza politica e la stessa democrazia. Sempre piú stretto è il legame tra affari e politica, che si manifesta nel conflitto di interessi e nella pervasività del lobbismo che sta diventando una specie di corruzione legalizzata.
È chiaro che se le disuguaglianze aumentano e se cresce la concentrazione del reddito e della ricchezza nelle mani degli strati piú ricchi della popolazione, le opportunità di vita inevitabilmente divergono. In un regime di forte disuguaglianza chi ha poco non ha o ha meno possibilità di realizzare le proprie capacità e il proprio talento (soprattutto i giovani e tra questi i meno abbienti) e in secondo luogo è favorita la rendita, cioè la posizione persona-le e sociale di chi ha già un proprio patrimonio.
Va inoltre osservato che oggi le disuguaglianze non si determinano piú soltanto nella sfera economico-lavorativa, ma coinvolgono anche la cultura o meglio la relazione tra queste due dimensioni. Chi sta in basso ha difficoltà a esprimersi o come si dice a legittimarsi, date le scarse risorse di cui dispone (condizioni precarie di lavoro, insufficiente scolarità, subordinazione alla tradizione e al territorio in cui vive, aggressione del consumismo e dei media) da una parte e dall’altra parte dalla mancanza di quell’antica socialità che sorgeva quasi «naturaliter» dalla collocazione comune nel processo produttivo (per esempio per la classe operaia). Nel passato la comune condizione materiale produceva conflitto sociale, che, se regolato, è un arricchimento per la democrazia, oggi, invece, c’è quella che è stata definita da Magatti e De Benedittis «subordinazione invisibile» che a livello personale si manifesta con un senso di insicurezza e con un conservatorismo valoriale e che nella struttura sociale dà origine a una permanente destabilizzazione parecchio rischiosa a causa degli ondeggiamenti e delle derive identitarie difficili da governare.
Non siamo nella situazione che si verificò dopo la prima guerra mondiale, in cui, scrive Luciano Gallino, «l’avvento di regimi autoritari in Italia e in Germania nel 1922 e nel 1933 ebbe tra le sue concause la perdita di status di milioni di appartenenti agli strati intermedi», ma l’attuale crisi strisciante della democrazia, la postdemocrazia, come è stato detto, ha nella iniqua e cattiva redistribuzione dei reddito, nell’aumento dell’ingiustizia e dell’illegalità, una delle cause maggiori. La disuguaglianza, infatti, alla lunga, provoca fratture sociali e civili e per giunta ostacola lo sviluppo. La coesione sociale, che ha nell’equità il suo baricentro, e l’innovazione permanente sono i volani del mutamento del modello di sviluppo attuale, avendo di mira uno sviluppo che non sia sol-tanto economico, ma sia intessuto anche con altri parametri di benessere, di civiltà e di democrazia.
Nel nostro paese, secondo l’indagine periodica della Banca d’Italia, la ricchezza delle famiglie operaie e impiegatizie è diminuita, mentre è di molto accresciuta la ricchezza patrimoniale – la rendita – legata alle azioni e al possesso immobiliare.
Conseguentemente è aumentata la distanza sociale tra i vari strati della popolazione. Per averne una idea è sufficiente considerare la crescita dei consumi di lusso da una parte e sul versante opposto il numero crescente di persone e di famiglie in povertà relativa e di quelle, operaie o persino di ceto medio, che ora vivono in ristrettezza senza risparmiare nemmeno un centesimo.
Le ragioni di fondo che sono alla radice della crescita delle disuguaglianze sono essenzialmente le seguenti: il basso tasso di crescita economica e di produttività, rispetto ai paesi emergenti (Cina e India, innanzitutto) e anche a quelli occidentali; la mancata politica dei redditi, tendente a una equa redistribuzione sociale; lo spessore del sistema corporativo e «parentale» che caratterizza la società italiana e che, data l’esaltazione del «particolare», ha effetti negativi anche sul welfare state, distorcendone i compiti tesi a garantire parità nei diritti sociali, a cominciare da quelli fondamentali della salute, della previdenza per la vecchiaia e dell’istruzione. Sistema in cui i legami familiari, amicali, territoriali, o l’appartenenza a corpi categoriali, hanno un grande peso. Fenomeni che in sé sono anche benefici, se restano entro certi limiti e nel proprio ambito, ma, invece, proprio perché sono eccessivi e vincolanti, svolgono un ruolo di freno e ostacolano la libera concorrenza, la mobilità sociale e individuale, l’accesso al lavoro dei giovani, l’innovazione in tutti i campi, il riconoscimento del merito e dei bisogni effettivi. Questa barriera corporativa negli ultimi anni si è alzata ulteriormente. E va, invece, rimossa promuovendo ovunque libertà ed equità.
 
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