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15 Settembre, 2002
Il coraggio di Mancino (di Marco Travaglio)
*Il giornalista che viene a conoscenza di un fatto non può non pubblicarlo. Il diritto di cronaca è garantito dalla Costituzione*. L’ha ripetuto due volte nel giro di una settimana il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino.

“Il giornalista che viene a conoscenza di un fatto non può non pubblicarlo. Il diritto di cronaca è garantito dalla Costituzione”. L’ha ripetuto due volte nel giro di una settimana il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino. Ora, ringraziare un politico, fra l’altro piuttosto antico, perché banalmente riconosce - bontà sua - ai giornalisti il diritto-dovere di fare il proprio mestiere di informare, è bizzarro, ma doveroso. Perché l’ovvio e il banale, in un paese che ha smarrito i fondamentali, diventano quasi rivoluzionari. Infatti di solito, quando parlano di giornalisti, i politici dicono tutt’altro. E pensano anche peggio.

Tant’è che soltanto otto mesi fa la Camera approvava trionfalmente il disegno di legge Mastella che mette la museruola ai giornali su intercettazioni e atti d’indagine con 447 voti favorevoli, 7 astenuti e nessun contrario (nemmeno uno). La maggioranza più bulgara mai vista nella storia recente: dai fascisti storaciani ai comunisti terzinternazionalisti. Se la stessa corrispondenza di amorosi sensi della casta degl’intoccabili si ripetesse anche in Senato, la legge entrerebbe in vigore e metterebbe il silenziatore sui grandi scandali della politica e dell’economia, ma consentirebbe pure alla magistratura di operare per anni nell’ombra, lontano da quel controllo sociale che il Parlamento, nel 1989, ritenne doveroso abrogando il segreto istruttorio affinché il popolo italiano potesse verificare come viene amministrata la Giustizia nel suo nome.

Il ddl Mastella+447 si impernia, infatti, sul principio abominevole secondo cui il giornalista che viene a conoscenza di un fatto non può e non deve pubblicarlo. Altrimenti rischia una multa fino a 100 mila euro o, in alternativa, una pena detentiva. E, si badi bene, il divieto di pubblicazione non riguarda le notizie coperte dal segreto, che già oggi è vietato pubblicare. Riguarda gli “atti non più coperti da segreto”. Oggi quegli atti, se riportati integralmente, costano al giornalista un’oblazione di 240 euro. In futuro, con l’elevazione della multa a 100 mila, saranno oblazionabili a 50 mila euro: 100 milioni di lire, una somma che nessun giornalista può permettersi. Solo un editore può sobbarcarsi un simile esborso. Così saranno gli editori a decidere, di volta in volta, se autorizzare o meno il proprio giornale la pubblicazione di un atto, anche non segreto. Diranno sì se converrà ai loro interessi, cioè se quell’atto mette in cattiva luce un loro avversario politico o affaristico, mentre se dispiacerà a loro o ai loro amici, o semplicemente sarà interessante per i cittadini, lasceranno perdere.

La libertà d’informazione sarà affidata alle guerre per bande tra editori, che poi sono anche e soprattutto banchieri, finanzieri, costruttori, imprenditori, palazzinari, politici o amici di politici o suoceri di politici. E la politica sarà ancor più sotto ricatto di quanto lo sia oggi, perché intercettazioni e altri atti giudiziari “non coperti da segreto” saranno comunque noti a giornalisti ed editori, che potranno eventualmente far sapere ai personaggi interessati di averli in pugno e contrattare con loro il prezzo del silenzio.

Un altro ovvio quanto rivoluzionario passo in avanti, Mancino lo compie quando parla di “segreto investigativo”, invece di ripetere la solita giaculatoria del “segreto istruttorio”. Che è stato abrogato nel 1989, com’è noto a tutti gli addetti ai lavori, fuorché a coloro che lo abrogarono. E come ha finalmente riconosciuto lo stesso presidente Giorgio Napolitano, che nei giorni dello scandalo Rai-Mediaset aveva invece invocato il “segreto istruttorio”. I due segreti non si differenziano soltanto per il nome, ma per la sostanza. Il segreto istruttorio copriva come un sudario tutta l’istruttoria: sino al termine delle indagini, non si poteva sapere né scrivere nulla. I magistrati operavano sott’acqua, all’insaputa della stampa e dei cittadini. Il segreto investigativo o “delle indagini”, invece, ha due particolarità.

Anzitutto è posto a esclusiva tutela delle indagini: non degli indagati. Decide il pm quando cessa l’interesse dell’indagine a nascondere all’indagato che si indaga su di lui. A quel punto lo avverte, o con l’avviso di garanzia per notificargli l’accusa, o con l’invito a comparire per interrogarlo, o col mandato di perquisizione per perlustrargli la casa o l’ufficio, o con l’ordine di custodia cautelare per arrestarlo, o con l’ordinanza di sequestro per portargli via qualche bene. In quel preciso istante, da quando l’indagato ne “ha conoscenza” o “può avere conoscenza”, l’atto non è più segreto. Com’è noto all’indagato e al suo difensore, può essere divulgato ai cittadini.

Tant’è che, se il pm decide che è meglio che resti riservato per un po’, ne dispone la “segregazione”. Quando,dunque, i giornali raccontano il contenuto di avvisi di garanzia, inviti a comparire, verbali di interrogatorio, ordinanze di sequestro o di perquisizione o di custodia, magari citando intercettazioni o altre fonti di prova, non violano alcun segreto. Se li riportano dalla prima all’ultima parola, incappano nell’anacronistico divieto di pubblicazione integrale, oblazionano a 240 euro e morta lì. È il caso, per esempio, della telefonata Berlusconi-Saccà pubblicata ieri dal sito dell’Espresso senz’alcuna violazione del segreto, in quanto contenuta negli atti depositati a disposizione delle parti a chiusura dell’indagine della Procura di Napoli.

Tutt’altra questione sono gli atti segreti, che sono pochi ma pure esistono. Per esempio, lo scoop di Repubblica sulla stessa indagine napoletana (che una settimana fa non era ancora giunta al deposito degli atti) a carico di Berlusconi, Saccà e altri sulla compravendita di senatori e sulle ragazze raccomandate a Raifiction. Dice autorevolmente Mancino, “il giornalista che viene a conoscenza di un fatto non può non pubblicarlo”, ma “chi fa uscire una notizia che invece non deve uscire si rende responsabile di violazione del segreto investigativo”. Come ha fatto Repubblica nel darne la notizia, ancorché segreta. Come ha fatto il Giornale pubblicando la famosa telefonata Fassino-Consorte, ancora top secret, e il nome di Silvio Sircana come possibile oggetto di ricatti da parte del clan Corona.

Il giornalista deve, se la notizia è vera e di interesse pubblico, violare i segreti: poi naturalmente si assume la responsabilità di aver infranto la legge e dunque accetta le conseguenze della sua violazione. E cioè l’indagine a suo carico, con lo spiacevole corollario di perquisizioni, per violazione del segreto in concorso con il pubblico ufficiale (magistrato o investigatore) che gli ha spifferato la notizia segreta. Dovendo coprire le sue fonti, il giornalista ha il dovere di tacere il nome di chi gli ha dato la notizia, anche a costo di farsi indagare per reticenza o favoreggiamento. Il che spiega perché raramente le fughe di notizie trovano un colpevole.

Ricapitolando. In un sistema liberale, gli atti non segreti devono essere sempre pubblicabili, possibilmente integrali e testuali, onde evitare manipolazioni del giornalista (dunque il ddl Mastella+447 non deve proprio esistere); e gli atti segreti devono restare non pubblicabili, ma se il giornalista se li procura ha il dovere di pubblicare anche quelli, accettando poi di risponderne della propria violazione dinanzi alla legge.

Ma siamo in Italia, dunque va tutto a rovescio: quando esce una notizia non segreta, si tuona alla violazione del segreto istruttorio (che non esiste più da 18 anni). Poi si fa una legge per vietare la pubblicazione di notizie non segrete, a riprova del fatto che oggi non è vietata.

Ma si può fare il giornalista in un manicomio simile?

Marco Travaglio da L'Unità del 21.12.2007

 


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