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 Cronaca

15 Settembre, 2002
Ma quello statuto aiuta le oligarchie (di Filippo Andreatta da www.corriere.it))
Questa settimana, Galli della Loggia, Sartori e Panebianco hanno avanzato forti dubbi sulle posizioni del Pd. Il preoccupante giudizio di au­torevoli commentatori è moti­vato da alcuni vizi di origine.

Questa settimana, Galli della Loggia, Sartori e Panebianco hanno avanzato forti dubbi sulle posizioni del Pd. Il preoccupante giudizio di au­torevoli commentatori è moti­vato da alcuni vizi di origine. L'infelice decisione di rinun­ciare a partire prima delle ele­zioni del 2006, innanzitutto, ha impedito di usare il Pd per allargare la (risicata) vittoria elettorale del centrosinistra e di collegare la leadership del partito alla carica istituziona­le di primo ministro, perpetuando il deleterio dualismo tra partiti e istituzioni. La ti­midezza di Veltroni durante la campagna elettorale per le primarie, che ha cercato di le­gittimarsi sul sostegno popolare ma anche su quello delle oligarchie, lo ha poi vincolato quando queste ultime - pas­sata la sbornia delle primarie - hanno cercato di mettere in atto i loro tradizionali condizionamenti.

Queste difficoltà vengono al pettine su due argomenti che sono decisivi per il futuro del Pd e dell'intero sistema politico. Da un lato, la posizio­ne del Pd sulla legge elettora­le è risultata ondivaga e contraddittoria, a seconda degli equilibri interni ed esterni al partito, e ha indotto a molte­plici inversioni di rotta nell'ar­co di poche settimane. Dopo aver tenuto una posizione vagamente simpatetica nei con­fronti del referendum, la lea­dership del Pd ha proposto un complesso meccanismo proporzionale «spagnoleggiante» esplicitamente alter­nativo sia al referendum sia al sistema tedesco, per poi sug­gerire (per bocca del vicese­gretario) una preferenza per il sistema francese (semipresidenziale con maggioritario a doppio turno), per poi infine tornare su un sistema propor­zionale basato sul sistema te­desco.

Dall'altro lato, mentre la di­scussione sulla legge elettora­le è ancora lontana dall'esse­re risolta, il dibattito sullo sta­tuto del Pd ha sollevato que­stioni che riguardano non so­lo la vita interna del partito, ma il suo rapporto con gli elettori e le istituzioni. Vale quindi la pena di sottolineare due aspetti in particolare del dibattito statutario. In primo luogo, il Pd si dichiara, per quanto conceme la selezione della classe dirigente, il parti­to delle primarie sia per l'ele­zione del segretario naziona­le sia per l'indicazione dei candidati ai vari livelli (sinda­co, presidente di Regione, ecc). Viene però clamorosamente escluso il metodo del­le primarie per la selezione del livello più importante di tutti, quello dei candidati al Parlamento. La selezione dei legislatori del Pd, e del nu­cleo centrale della sua classe dirigente nazionale, verrebbe quindi lasciata alle spartizio­ni tra oligarchie o alle coopta­zioni (magari con lista blocca­ta), frustrando le promesse di cambiamento del ceto politi­co che hanno entusiasmato tanti sostenitori del nuovo soggetto.

In secondo luogo, per quanto riguarda il ruolo del leader, il Pd intenderebbe su­perare il dualismo tra cariche di partito e istituzionali, can­didando a premier il proprio segretario. In assenza di un si­stema elettorale o istituziona­le certo, però, questo obietti­vo è tutt'altro che sicuro. Da un lato, una candidatura automatica potrebbe risultare troppo rigida per un sistema nel quale, come nelle ipotesi proporzionaliste oggi in discussione, si dovessero rendere essenziali con ogni probabilità delle coalizioni tra più partiti. Dall'altro lato, sarebbe in ogni caso necessario sin­cronizzare le elezioni del segretario-candidato-premier al ciclo elettorale e al ritmo delle legislature. Si correreb­be altrimenti il rischio di tro­varsi con un premier appena eletto che deve sottoporsi alle primarie del proprio partito per rimanere in carica, oppu­re di trovarsi con un segreta­rio eletto da poco che rimar­rebbe in carica anche dopo una sconfitta elettorale.

Queste contraddizioni so­no il frutto delle ambiguità con cui è venuto alla luce il Pd, e dei dubbi di un ceto poli­tico ancora indeciso tra un'au­tentica innovazione e la con­servazione con qualche ritoc­co di facciata. Ma sono anche il frutto di un'affrettata e sciagurata tabella di marcia, che ha sovvertito la logica successione di riforma istituzionale, riforma elettorale e statuti di partito. Come si possono in­fatti stabilire le regole di sele­zione dei candidati alle cari­che di parlamentari e pre­mier se non si conoscono i lo­ro metodi di elezione e, più in generale, i ruoli di Parla­mento e governo? Forse, per il bene del Pd e della politica italiana, sarebbe saggio che la girandola di proposte di que­sti ultimi tempi lasciasse il po­sto a una discussione appro­fondita sulla forma di gover­no della quale il Paese ha bisogno, per poi discutere dei meccanismi elettorali più adatti, e infine di quelle rego­le interne ai partiti che hanno una ricaduta elettorale. Si ri­schia in caso contrario la reda­zione di uno statuto che non solo delude le aspettative di tanti che continuano a crede­re nel progetto del Pd, ma che è anche disfunzionale al rinnovamento delle istituzioni politiche del nostro Paese.

 


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