15 Settembre, 2002
L'ora della nostra tristezza (Barbara Spinelli da La Stampa)
Tutte le grida perentorie, che cingono come fasce di pietra Eluana e il suo viaggio nell'aldilà; tutti gli insulti, e le accuse di assassinio.....
Tutte le grida perentorie, che cingono come fasce di pietra Eluana e
il suo viaggio nell'aldilà; tutti gli insulti, e le accuse di
assassinio pronunciate da politici che non nomineremo per non
appiattire quel che deve restare profondo: questo è triste, nelle ore
in cui Eluana, assistita dalla legge, giace nella clinica che
l'aiuterà a morire com'era nelle sue volontà, dopo diciassette anni
di coma vegetativo permanente.
Tristezza è lo sgomento che irrompe quando ci si trova in una
situazione senza uscita: la parola vien meno, a soccorrere non c'è
che il balsamo del silenzio oppure quel sottile mormorio che si
chiama amore ed è più forte, San Paolo lo sapeva, di ogni altra
virtù: fede, speranza, dono della profezia e della lingua, conoscenza
delle scienze, perfino sacrificio di sé, delle proprie ricchezze (1
Corinzi 13).
Quando s'affievoliscono fede e speranza, si può sempre ancora amare:
in particolare il sofferente, il morente. Nel momento in cui non sai
più guardare un altro essere con amore già sei nel biblico sheòl,
scivoli nel nulla. Tristi son dunque le grida dei politici e anche
dei vescovi: quando urlano all'omicidio.
E quando s'indignano con la magistratura e i medici, che hanno preso
in mano il volere di Eluana per il semplice motivo che altra via non
le era offerta. Non c'era una legge sul testamento biologico, non ci
son state parole pudiche di comprensione, né una politica che tace
invece d'infilarsi fin dentro la camera, privata, dov'è la soglia per
entrare nel mondo o uscirne.
Non è la sola tristezza, che ci accompagna dal 2006, quando Welby ci
parlò dal suo letto di non vita e non morte. C'è la tristezza di non
potersi parlare gli uni con gli altri, di non poter guardare in
faccia insieme il proliferare straordinario di paure, primordiali e
moderne, legate alla morte. Quasi fin dalla nascita esse ci visitano:
chi ha memoria dell'infanzia ricorda quei mesi, quegli anni, in cui
il pensiero della morte d'un tratto ci attornia come acqua alta, in
cui sembra inverosimile e atroce che i genitori possano morire, che
anche noi passeremo di lì, che per ognuno verrà il turno. Il pensiero
s'insinua come ladro nelle notti alte dei bambini, per poi lasciarli
in pace qualche anno. Poi s'installa la paura del morire, più che
della morte: naufragare in dolori insopportabili, o non riuscire a
morire malgrado la fine sia lì accanto, ineludibile epilogo di mali
incurabili. E infine la paura moderna: terribile, prossima al panico.
La paura di non padroneggiare la vita e il morire, perché ambedue
sono stati affidati a forze esterne. Il diritto al morire nasce dal
dilemma fondamentale: chi è proprietario della morte? Come difendere
gli espropriati: che siamo noi ma sono anche la natura e - per
alcuni - Dio?
La scienza e la tecnologia medica hanno compiuto progressi che hanno
stravolto il morire, essendo diventati i veri proprietari della
soglia. Non si moriva così, restando per decenni nella vita-non vita,
quando non esisteva il gigantesco potere che prolunga artificialmente
la vita con tubi, macchine, farmaci. Non c'era bisogno di fissare
limiti all'accanimento terapeutico o all'idratazione-alimentazione di
pazienti che non patiscono più sete e fame. Non c'era il fossato
scandalosamente enorme tra l'individuo cosciente, che può invocare la
libertà di cura prevista dalla Costituzione (art. 32), e chi non ha
più diritti essendo appeso alle macchine, e possiede una biografia
uccisa in nome del diritto alla vita.
La stessa parola eutanasia andrebbe adattata alla straordinaria
mutazione che viviamo, rinominata. Non si chiede la bella morte. Si
chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il
rispetto di questo diritto anche quando non c'è più coscienza. Questa
strada è sottratta alla capacità dell'uomo di darsi sue leggi (di
darsi auto-nomia), ma non è sottratta solo a lui. La proprietà passa
a macchine che trasformano l'uomo in un mezzo, che si sorveglia e
punisce allo stesso modo in cui son sorvegliati, nelle celle
d'isolamento, i prigionieri. La prigione della tecnica che
s'accanisce in nome di valori morali è terrorista: taglia le ali alla
preparazione della morte, che è nostra intima e nobile aspirazione;
tratta l'individuo non come fine ma come mezzo. Lo trasforma in uomo
docile e utile per la politica, l'ideologia: quale che sia
l'ideologia. Welby e Eluana dicono l'indisponibilità, assai meno
prometeica delle macchine, all'esser docile, utile mezzo. È qui che
insorge il panico: non solo di chi vuol staccare le sonde ma anche di
chi, con amore eguale, non lo fa. La morte in sé non mette spavento:
essa è terribile per chi sopravvive, Epicuro è saggio quando ricorda
che «la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è
lei, e quando c'è lei non ci siamo più noi». Il panico
dell'espropriato insinua il sospetto: può accadere che quando ci sarà
lei (la morte) anche noi ci saremo, ma morti-viventi.
È un panico cresciuto mostruosamente: per questo urge riprendersi la
morte. Non è un diritto che spossessa la natura, il sacro. Se fossero
loro ad agire, moriremmo senza respiratori. Quel che vediamo è il
trionfo della tecnica umana sull'umanità, la natura, il divino.
L'autonomia del morente restituisce naturalezza e sacralità a
un'esperienza inalienabile, sia che si stacchi la sonda sia che il
malato non voglia farlo. L'etica del morire è una difesa della vita,
perché risponde all'estendersi del bio-potere con la forza, vitale,
della responsabilità. Risponde con il testamento biologico, per
evitare che il paziente senza coscienza sia ucciso in vita. Risponde
col rifiuto dell'accanimento terapeutico e, se il corpo non sente più
fame e sete, dell'alimentazione-idratazione forzata. Risponde anche
al timore di chi - non meno solitario - mantiene la sonda.
Anche questa solitudine va ascoltata: anche la paura dell'eutanasia,
della morte della persona accelerata non per amore, ma in nome di
volontà collettive, politiche. È già accaduto nella storia, e se
esiste un tabù sull'eutanasia non è senza ragione. Non se ne può
parlare leggermente (neppure dell'aborto si può): è talmente incerto
il confine con il crimine. Chi decide infatti se una vita debba
considerarsi indegna d'esser vissuta? Il malato o la società, la
legge? Se decide il collettivo, il rischio è grande che non avremo la
bella morte ma la morte utile alla società, alla razza, alla nazione,
o alle spese sanitarie. L'eutanasia può estendere il bio-potere
anziché frenarlo. Può snaturare la missione del medico, che vedrebbe
i propri poteri ingigantiti non solo nel bene ma anche nel male. Ogni
medico diverrebbe per il paziente una sfinge, scrive Hans Jonas:
obbedirà a Ippocrate, cercando di sanare e lenire, o mi ucciderà per
una sua idea di pietà o convenienza?
Scrive la Bibbia che la parola divina sorprese Elia in modo
inaspettato, sul monte Oreb. Il vento soffiava ma la parola non era
nel vento. Sopravvenne un terremoto ma la parola non era nel
terremoto. S'accese un fuoco ma il Signore non era nel fuoco. Infine
apparve: era una voce di silenzio sottile. È a quel punto che Elia si
prepara all'incontro: non con discorsi prolissi ma coprendosi il
volto col mantello (1 Re 19,11). Forse la voce di silenzio sottile si
sente a malapena perché viene da dentro, dalla nostra coscienza. Se
solo si potesse parlare così delle questioni essenziali, del vivere e
morire. Sforzandosi di capire il diverso, scoprendo quel che è comune
nelle paure. Scoprendo l'aporia, che è la condizione dell'esistenza
in cui manca la via d'uscita, il dubbio s'installa, e d'aiuto sono il
senso del tragico o il mormorare sottile. Lì stiamo: non da una parte
il popolo della vita e dall'altra la cultura della morte, da una
parte i credenti dall'altra gli atei. Ma tutti egualmente confusi,
sperduti, assetati, poveri di parole.
 
Fonte La Stampa
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