15 Settembre, 2002
La finestra sudamericana: Barbari
Alla fine avrebbe anche dovuto aspettarselo. Mica siamo nel lontano Ovest, terra di nessuno e facile covo di predatori incalliti.
La finestra sudamericana: Barbari
La piccola guerra e i nuovi muri.
Alla fine avrebbe anche dovuto aspettarselo.
Mica siamo nel lontano Ovest, terra di nessuno
e facile covo di predatori incalliti. Mica
ci si puó presentare di fronte ad una vetrina
di un gioielliere con una mazza per rompere
le pietre e pensare di potersene andare indisturbati
con una manciata di orologi e preziosi in
mano. Ennó, mica la si passa liscia.
Uno dovrebbe saperlo, anche se non capisce
bene la lingua dovrebbe essere al corrente:
in cittá sono tutti armati, tutti pronti
a difendersi dagli invasori, armi in pugno,
per la strada, confusione ed esaltazione
che si mescolano, inevitabilmente, sino ad
arrivare a sfondare il cranio di un giovane,
senza nome, senza storia, colpevole di aver
creduto che fosse tutto piú facile del previsto.
Una fiaccolata. Bella pensata per dimostrare
la propria solidarietá al commerciante, assalito
e costretto a difendersi da solo, indifeso
e alla mercé dei nuovi barbari.
I barbari. Giovani, bambini, vecchi, donne
senza un passato e un futuro ancora lontano.
Emarginati, denigrati, disprezzati, danneggiati,
indicati come motivo di tutte le insoddisfazioni.
Una violenza continua, costante e molto,
molto piú efficace di un colpo di pistola.
Un colpo che ci riporta alla realtá altrimenti
nascosta, sotterrata dalla facciata umanitaria,
dagli spiccioli raccolti per salvare una
piccola vita in Africa...
A Rio de Janeiro é cominciata una piccola
guerra che a vederla alla televisione sembra
nemmeno tanto diversa da quella che si combatte
in Iraq o in Afganistan o in Palestina ed
Israele.
La Rosinha, storica favela carioca, é teatro
di una delle piú feroci battaglie per il
controllo del territorio. Emarginazione che
prevale sulla voglia di vivere, traffico
di stupefacenti che cambia la vita di chi
sapeva solo sopravvivere. Proiettili traccianti
anticipano le raffiche di mitragliatrici
potentissime, scaricate con semplicitá nel
pieno centro abitato.
È arrivato l´esercito, é stato decretato
lo stato di allerta massima. Il vice governatore
ne ha pensata anche una bella: facciamo un
bel muro di tre metri tutt´intorno alla favela,
cosí, voilá, tutti dentro, risolto il problema.
É tutto molto strano. Un mondo dove solamente
chi ha tanto puó sentirsi legittimato di
decidere quello che é giusto o meno, in un
paese dove il controllo dei mediastabilisce
le veritá, una societá che costruisce barriere
per isolarsi dai diversi e non cerca l´unione.
Non basta sempre e necessariamente dire basta.
Bisogna fare. Bisogna essere capaci di accettare
gli altri, di capire che negli altri esiste
qualcosa di diverso ma non necessariamente
peggiore, prioritariamente brutto, da tenere
lontano. E non nasce in un giorno quest´odio
per gli altri, questa violenza oscura, nascosta
nelle teste delle persone che si credono
sempre migliori degli altri e non sanno ascoltare
chi tende loro una mano ma lo dispezzano
perché incapace, inefficente. Non nasce in
un giorno. Nasce in anni di invidie, frustrazioni
non curate, incapacitá al raziocinio, facilitá
per il populismo, per la battuta volgare,
per la semplificazione della vita in metafore
fuori luogo.
A Milano fa freddo. Molto freddo. Dentro.
Non basterá la fiaccolata a riscaldare i
cuori di nessuno. Di fronte alla morte, in
assoluto, non esiste giustificazione, mai.
Come a Rio, dove cambia solo il panorama
ma non l´incapacitá di capire che una societá
é fatta da tutti e non, sempre, privilegio
di pochi.
Federico Di Franco
 
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