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15 Settembre, 2002
Cremona, 10 luglio 1944: bombardamento a Porta Milano
Una testimonianza diretta di Maria Pellini *Era un lunedì, quel mattino, in bicicletta, mi sono recata in città.*

Il 10 luglio del 1944 era un lunedì.
Avevo 24 anni ed ero sfollata con la mia bambina a San Savino, presso i miei suoceri. Mio marito, pur continuando ad essere dipendente della Banca Popolare, da qualche settimana era andato partigiano in montagna, .
Ero venuta in città, quela mattina. Prima alla banca, a ritirare lo stipendio di mio marito, poi dal calzolaio che c'era in Vicolo Tombino.
Da lì sarei rientrata a San Savino. Ma scendendo da via Montello mi sono imbattuta nella Piazza di Porta Milano che era mezza distrutta. Una bomba era caduta sulle case tra l'angolo con via Dante e il bar Europa (non ricordo se allora già portava questo nome). C'erano stati alcuni morti. Delle persone indirizzavano il traffico verso via Bergamo.
Io non mi rendevo ben conto di quanto stava succedendo. Mi avviai verso il fruttivendolo che c'era nei pressi del sottopassaggio, ma lì stavano chiudendo di gran fretta per la paura del bombardamento. Ricordo che urlando mi dissero di andarmene verso il sottopassaggio.
Così ho fatto. Giunta dall'altra parte, terminata la salita, mi sono accorta che nel fosso sulla destra stavano coricate e nascoste tante persone (allora lì c'era un'ortaglia, non era ancora stato costruito il grattacielo). Tra quella gente c'era una mia conoscente, Bruna Sartori, che urlando mi diceva di scendere dalla bicicletta e di correre al riparo.
Mi diceva "E' pericoloso! Non vedi lassù gli aerei !!". Io, ripeto, ero un po' frastornata e un po' incoscientemente ho risposto, guardando verso il cielo "Ma sì, tanto sono così lontani!". Li vedevo lontanissimi, là in alto nel cielo. Non riuscivo a considerarli come un pericolo.
In quel preciso istante, con un tremendo boato, una bomba é caduta sulla scuola Stauffer, avanti circa 50 metri sulla via Filzi. Ed altre cadevano tutto intorno.
Lo spostamento d'aria mi ha gettato per terra. Il signor Camilloni, capocaseggiato della casa che fa angolo con via Giardino (via nella quale avevo abitato fino a pochi mesi prima), rischiando molto, é venuto da me, mi ha raccolta e mi ha condotta all'interno della casa. Giù in cantina c'era tanta gente: donne, bambini, anche uomini. Tutti impauriti e piangenti.
Dopo parecchio tempo, una volta rassicurati sul cessato allarme, torno fuori e ritrovo la mia bicicletta con la borsa attaccata al manubrio.
Impaurita, molto frastornata mi dirigo per prendere - poco più avanti - la via verso il Cimitero, per poi tornare a San Savino. Ma la strada del Cimitero é bloccata da cumuli di terra e da buche fatte dalle bombe. Di lì non si passa. Allora allungo un po' la strada, fiancheggio il Naviglio, scendo per i campi (dove ora c'é via Aglio).
Lì vedo la fine del mondo: in una buca c'é una donna, completamente svestita, che piange ed urla. Lo spostamento d'aria l'aveva spogliata e gettata a terra, lontano. Era disperata e sperduta. Tutto attorno corpi di persone a terra. Mi avvicino ad una. Temo possa essere il marito di mia cugina, Gianni Vago. Gli sfioro la spalla, per girarlo e vederlo in viso. Un fiotto di sangue sgorga dalla ferita. Inorridisco. Con un certo sollievo mi accorgo che non é Vago, saprò più tardi che si trattava di Gino Mora, che fortunatamente riuscirà a sopravvivere. Fuggo. Inforco la bicicletta e pedalo verso il Belgiardino, all'inizio di via Boschetto, nella zona dove c'é la Wonder. Mi muovo quasi come un automa, ma la zona la conosco bene perché sono nata al Migliaro ed ho vissuto lì, e gli ultimi anni in Via Giardino.
Raggiungo dunque il Belgiardino. Lì alcune donne che conosco mi portano in casa, mi offrono un caffé, permettendomi di riprendermi. Dopo parecchio tempo inforco la bicicletta e raggiungo San Savino, dove i miei parenti erano molto preoccupati per il mio ritardo.
Una volta giunta là, nel raccontare i tragici eventi, solo allora mi ricordo dello stipendio che avevo messo nella borsa, che durante il bombardamento era restata per parecchio tempo incustodita, attaccata al manubrio della bicicletta.
Controllo: nessuno aveva toccato nulla. C'era stato ben altro a cui pensare, in quelle drammatiche ore!
Maria Pellini
 


       



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