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15 Settembre, 2002
Una lettera aperta e rabbiosa (di Matteo Marchetti, 21 anni, Roma)
Generazioni a confronto - Contro chi ci vuole lattanti a trent'anni - da Il Riformista del 30 giugno 2008

Coinvolgere i giovani, guardare ai giovani, formare i giovani, aiutare i giovani, candidare i giovani, assumere i giovani, rispettare i giovani. Che cosa significa questa introduzione?

Semplice: sono alcune delle espressioni con cui avete infiorettato tanti bei discorsi inutili.

Facciamo un gioco: cedendo al fascino delle metafore calcistiche, prendiamo una squadra dal passato glorioso ma da alcuni anni in crisi di risultati, piena di giocatori ormai sul viale del tramonto e il cui allenatore ha visto dal vivo il Grande Torino. Ogni presidente di buon senso darebbe una targa al nobile vegliardo, magari inserendolo nei quadri societari, e punterebbe tutto sulla cosiddetta "linea verde": quando si deve ripartire, non c'è niente di meglio di un'iniezione di gioventù. Se però il presidente non crede nelle potenzialità dei propri ragazzi, si incarterà tentando di prolungare la carriera di qualche "intoccabile" e svenandosi per ingaggiare il campione di turno, rimandando semplicemente il drammatico impatto con la realtà.

Non avere fiducia nei giovani porta guai, e tanti. In Italia, si dice, siamo tutti commissari tecnici della Nazionale; io vedo almeno una quarantina di milioni dei presidenti di cui vi raccontavo: l'Italia non crede più nei suoi figli, il perché lo sa Dio. Non ci stimate, non ci rispettate; pensate che siamo meno intelligenti e disposti al sacrificio di voi; temete sempre che, come nella migliore tradizione, i figli distruggano ciò che i padri, dopo mille sacrifici, hanno creato. In noi vedete il vuoto. Ma avete mai pensato, cari "-antenni", che la causa di questa stupida generazione vada ricercata a monte? L'Italia degli anni Sessanta, quella della vostra infanzia, brillava di luce propria, fra Dolce Vita, avanguardie letterarie e artistiche, mutamenti sociali. Avete avuto Fellini, Calvino, Moravia, Visconti, Pontecorvo, Montanelli, Mastroianni; libri italiani che sono usciti quando avevate dieci o dodici anni, oggi sono oggetto di studio nelle università; per ridere potevate agevolmente contare su maestri come Alberto Sordi, Totò, Eduardo De Filippo, Nino Manfredi. Avete ereditato un Paese che cresceva vorticosamente, posti di lavoro sicuri e garantiti, uno Stato capace di costruire l'Autosole in pochi anni e di scrivere la Costituzione in diciotto mesi circa. Guardate quello che ci accingiamo - forse - ad amministrare: un Paese sempre più marginale in Europa e nel mondo; un cinema che si dibatte da un decennio in una crisi imbarazzante; un'intellettualità che, al posto de Il giorno della civetta, produce Moccia e i suoi fastidiosiacronimi; una società allo sbando che, circondata di "letterine" e "tronisti", marcia sicura e inconsapevole verso l'abisso. Che cosa vi aspettavate che uscisse fuori da tutto questo?

Dite sempre che non ci interessa la politica, ma mai una volta vi siete domandati se valga davvero la pena seguire dibattiti parlamentari con ministri che parlano al telefono e fette di mortadella che svolazzano in giro; vi lamentate della nostra ignoranza, ma poi la vostra politica toglie fondi alla scuola e addirittura ci fornisce temi per la maturità con vistosi errori nelle tracce; secondo voi guardiamo troppa televisione, ma avete passato almeno un paio di decenni a cercare sistemi per farcene guardare di più; abbiamo falsi miti, ma nessuno che non sia stato costruito con la vostra pubblicità. Secondo voi abbiamo avuto tutto, ma la società in cui siamo cresciuti sembra Las Vegas: grandi insegne al neon, centri commerciali, shopping center; di notte, lo sfavillio delle luci abbaglia; di giorno, la triste realtà si rivela in tutta la sua miseria.

A volte mi sembra di essere parte di una generazione di eterni embrioni, milioni di feti costretti per sempre al secondo mese: siamo attesi con fiducia e speranza, ma nessuno ha ancora pensato in maniera concreta al nostro futuro. Probabilmente dovete ancora scegliere il colore delle nostre camerette; se rinunciare alla stanza degli ospiti o al bagno di servizio. Si parla di giovani come del pupetto appena spedito di sopra a dormire.

Nell'antica Roma, l'adulescens era un membro della comunità civile, per quanto inesperto. Per secoli la faccenda è proseguita in questa maniera; se anzi si può obiettare qualcosa, è per l'eccesso opposto: troppe responsabilità troppo presto. Poi, però, tra la metà degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta, è diventato evidente che alla gioventù si sarebbero potuti spremere un bel po' di quattrini, e da adulescentes siamo diventati gggiovani, teen-ager o chissà che altro.

Dopo millenni in cui il passaggio epocale era stato uno solo, quello dalle brachette ai pantaloni lunghi o dalle bambole ai lattanti veri, si schiude un mondo nuovo dalle immense possibilità: quello dei dischi, dell'abbigliamento, delle bibite, dei locali. Noi, oggi, respingiamo le nostre responsabilità: accettiamo passivamente che in questo Paese prima dei trent'anni si possa solo studiare, servire ai tavoli, portare borse, correggere bozze o fregarsene di tutto e continuare a giocare. Non c'è gloria per gli sbarbati al di qua delle Alpi: gerontocrati incarogniti occupano saldamente ogni posto di una qualche importanza, sbandierando la loro "esperienza". In virtù di questo, è stato appena eletto un premier nato durante la Guerra di Spagna, due anni prima di re Juan Carlos, per capirci; siamo un Paese dove l'onorevole Franceschini è considerato un giovane rampante, e va per i cinquanta. Al massimo possiamo programmarvi il computer o insegnarvi a usare il nuovissimo iPod.

Intendiamoci, non sto dicendo che manager, parlamentari o professori abbiano la data di scadenza, anzi; solo, mi sembra un po' strano che un Paese da molti accreditato sulla via di un inesorabile declino non sia minimamente interessato a cercare le risorse che gli servono per tirarsene fuori in chi non è ancora sfiduciato o corrotto dal sistema.

Per più di un anno voi lettori e collaboratori del Riformista avete avuto per le mani questo inserto; un inserto, mi si perdoni l'immodestia, meraviglioso per la passione che sprigiona in un momento storicamente buio come l'attuale, quasi commovente per la quantità di idee, sogni e speranze che è ancora in grado di raccogliere. Soprattutto, però, queste quattro pagine vi sono state utili, cari signori, perché, raccogliendo così tanta gioventù d'oro e portandovela in edicola ogni mese, vi hanno illuso di essere stati bravi genitori, educatori, comunicatori e politici. La nostra esistenza vi rassicura, vi può lasciar credere che se vostro figlio vi spaventa è colpa sua o, tutt'al più, di qualche piccolo bastardo che lo ha traviato in quarta elementare. Certamente, non vostra. Noi siamo il vostro proscioglimento.

Come numerosi processi eccellenti hanno insegnato, però, non sempre il proscioglimento coincide con l'innocenza. La mia è una generazione accusata di ogni nefandezza: inerte, molle, ignorante, materialista, nichilista, depravata, violenta, disinteressata. La colpa è stata attribuita ogni volta a qualcosa di diverso: la televisione, la scuola, le discoteche, la legge del branco, i cellulari con fotocamera, internet, a volte le famiglie. Sommando tutte queste cose, però, si ottiene la società che la vostra generazione, quella del boom e di "a letto dopo Carosello", ha voluto lasciarci. È anche vero che ci sono (tanti) miei coetanei cui questa situazione non pesa affatto. Si dividono in due categorie: quelli che già alla nascita non sognavano che un completo beige e una cravatta blu fiordaliso e quelli che vi piacciono tanto. Dei primi non c'è molto da dire: gli siete entrati nel cervello fin da piccoli, sono nati pompieri e probabilmente moriranno acqua; i secondi, invece, vi piacciono di più, telegenici e manovrabili, alla Madia, tanto per intenderci. Ventiseienne, cognome illustre, bel visino, capolista del secondo partito del Paese e fiera di dichiarare: mica mi interessava, prima, la politica. Questo volete: sorrisi dolci e cervelli insipidi; nessuno, insomma, da educare a governare un Paese, perché tanto voi, nella vostra idea di futuro, ci siete sempre.

Con questo articolo non voglio cantare le lodi di una generazione che non stimo eccessivamente neanche io - il vuoto pneumatico di alcune teste mi spaventa. Ma voi siete le ultime persone al mondo a potersene lamentare. Perché quella della "generazione perduta" non è la causa del vostro attaccamento ai bottoni. È solo l'ennesima scusa.

Matteo Marchetti 21 anni, Roma

 


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