15 Settembre, 2002
Sergio Finardi dagli Stati Uniti....
Dopo l’analisi sul non-voto nelle elezioni presidenziali del 2000, queste note affrontano il problema del non-rappresentato nel sistema bi-partitico statunitense
Sergio Finardi
Dopo l’analisi sul non-voto nelle elezioni
presidenziali del 2000, queste note affrontano
il problema del non-rappresentato nel sistema
bi-partitico statunitense
Molti si saranno, credo, chiesti quale possa
essere la ragione della rinnovata candidatura
di Ralph Nader alla presidenza statunitense,
annunciata il mese scorso. Una candidatura
che non sembra avere più nemmeno il senso
che gli fu proprio nel 2000, ovvero la possibilità
concreta di far superare il 5% dei voti al
Green Party e introdurre una terza forza
dentro il duopolio democratico-repubblicano.
Duopolio che ha ridotto la democrazia statunitense
(almeno a livello federale) ad una farsa
di comparse intercambiabili su una scena
dominata dai grandi interessi e da poteri
non-eletti ma estremamente influenti su qualsiasi
Amministrazione, come sottolineava il 3 aprile
su queste colonne John Pilger.
Le risposte facili puntano sul personaggio
Nader e sulla sua apparente incomprensione
di quanto è in gioco nelle prossime elezioni.
Tali risposte trascurano la storia del “politico”
in questo Paese e anche la reatà di un uso
“alternativo” della campagna presidenziale
da parte di chi non ha quasi speranza non
dico d’essere eletto, ma anche solo d’essere
notato.
Forse non è molto noto che le candidature
ufficiali per la presidenza nelle elezioni
del novembre 2004 si contano nell’ordine
delle decine e riguardano sia candidati che
hanno partecipato alle primarie del Partito
democratico, sia altri Democratici che non
vi hanno partecipato, sia una decina di Repubblicani,
sia infine i candidati di partiti come il
Green Party, il Libertarian Party, l’American
Party, il Constitution Party, il Peace &
Freedom Party, il Reform Party, il Socialist
Party, il Socialist Equality Party, il Socialist
Workers Party e 34 altri candidati indipendenti,
tra cui Ralph Nader. Il fatto poi che siano
attivi negli Stati Uniti - oltre al Repubblicano
e Democratico - altri 53 partiti con capacità
di far eleggere rappresentanze a livello
locale e dei vari Stati rimane pure un fatto
sconosciuto ai più e l’assenza di informazione
su questa realtà ipersemplifica l’immagine
del sistema politico statunitense e rende
incomprensibili alcune sue dinamiche, ad
esempio proprio il senso di una candidatura
presidenziale senza speranza.
Ho, credo, dimostrato in un precedente intervento
(“L’America in mano a chi non vota”, 29 gennaio)
che la corsa presidenziale di Nader nel 2000
non c’entra niente con la sconfitta dei Democratici,
anche se il circo mediatico continua a ripetere
la storiella per evitare di chiedersi perchè,
nel 2000, dei cento milioni di non votanti
(51% dell’elettorato, ovvero degli aventi
diritto) 49 milioni, in buona maggioranza
lavoratori dipendenti, si erano registrai
per andare a votare ma poi non si sono presentati
alle urne. Se, dunque, è stata l’incapacità
dei Democratici di raggiungere un loro enorme
elettorato potenziale la vera fonte della
sconfitta nel 2000, ha oggi importanza andare
a guardare, oltre che nel non-voto, nel “non-rappresentato”,
paradosso di una società fortemente propensa
alla speranza - nella vita di comunità come
negli affari e nel lavoro - ma incapace di
rappresentare l’articolazione di tale speranza
in termini politici.
Nella nuova candidatura di Nader, come di
altri che si presenteranno senza alcuna chance,
non c’è la vanità personale di cui tanto
si parla o lo sciagurato calcolo di chi non
vede i grandi rapporti di forza e gioca al
tanto peggio tanto meglio, ma il sentimento
profondo di chi non può più sopportare l’infinita
ipocrisia di questo sistema schiacciasassi
- capace di estrema abilità politica nel
mediare i grandi interessi dominanti nelle
varie e assai diverse regioni del Paese e
di produrre poi un paio di candidati presidenziali
“credibili”, ma incapace di garantire accesso
politico nazionale a tutto ciò che è diverso
da un grande potere economico. Un sentimento
profondo, che ha che fare con la verità e
il suo desiderio, dunque qualcosa che fa
a pugni con la logica politica tradizionale
ma anche, e qui sta il punto, che elude un
pensare politico che assuma il problema di
come cambiare i rapporti di forza reali.
Si potrebbe dire, infatti, che molte candidature
“alternative” portano sì il segno della denuncia
morale di questo sistema, ma non si distaccano
dallo schema della politica-spettacolo proprio
delle campagne elettorali repubblicane o
democratiche. Tali candidature arrivano alle
elezioni come si va in cerca di fortuna,
sperando di avere spazio tra i riflettori,
come se l’avere ragione, il porre questioni
vere, potesse bastare a farle contare. Si
potrebbe però anche dire che tra le candidature
ve ne sono alcune che sono veicolo della
diffusione di un discorso politico completamente
cancellato dalla grande comunicazione e possono
dare frutti nell’ambito della lotta politica
e per i diritti di cittadinanza.
Pochi, credo, in Europa hanno ad esempio
notato che la candidata Nader/Verdi alla
vicepresidenza nel 1996 e nel 2000 era Winona
LaDuke (1959), figlia di Vincent, già “voce”
del popolo Anishinabeg (Chippewa, Ojibwe)
negli anni 80, e di Betty Bernstein, docente
universitaria di arte di origine russo-ebraica.
Winona, divenuta un’attivista politica durante
i suoi studi ad Harvard negli anni 70 (diciassettenne
era stata invitata a parlare alle Nazioni
Unite sulla tragedia dei popoli autoctoni
nordamericani ed aveva fatto ricerca sulle
scellerate imprese minerarie del governo
statunitense per l’estrazione di plutonio
nelle riserve Navajo), aveva scelto agli
inizi degli anni 80 di andare ad abitare
nella riserva (White Earth nel nord del Minnesota)
degli avi paterni Ojibwe, portandovi iniziative
educative e produttive. Perchè quella candidatura
alla vicepresidenza? La logica a cui rispondeva
è evidente: ricordare a chi vuole dimenticare,
utilizzare quella tribuna per dire una verità
che questo sistema schiaccia e soffoca. Una
verità che urgeva più del calcolo e della
razionalità politici, la verità su un olocausto
durato tre secoli e che ha ucciso direttamente
o indirettamente 5 milioni di nativi (si
veda l’imponente documentazione di Ward Churchill
in “A little matter of genocide”).
Così per altri “candidati” odierni, dietro
a cui ci sono altre rivolte morali e sociali,
altri grandi problemi, cui i candidati “credibili”
riservano solo qualche accenno. Dalla cancellazione
di milioni di lavori stabili e a tempo pieno
nell’America industriale, alla devastazione
di intere aree urbane ridotte a fantasmi
dalle delocalizzazioni all’estero delle produzioni
manifatturiere. Dalla miseria morale e materiale
dei ghetti neri e latinos, ove giornalmente
si svolge una lotta per la sopravvivenza
che include la rovina dei propri fratelli,
alla scomparsa progressiva di centinaia di
migliaia di piccole imprese familiari che
davano un volto e animavano le città e i
loro centri, ora ridotti ad un deserto alla
chiusura degli uffici dei grattacieli. Dall’abbandono
reale - nonostante le fanfare patriottiche
- di decine di migliaia di veterani di guerra,
in particolare coscritti del Viet Nam che
gli orrori di quella guerra hanno spinto
alla tossidipendenza e all’alcolismo, alla
condizione disperata in cui vivono centinaia
di migliaia di anziani che un sistema pensionistico
e sanitario demenziale ha escluso da qualsiasi
beneficio. Problemi che debolmente o per
nulla rappresentati dai Democratici, finiscono
poi nei “programmi” di candidati cui i grandi
media non riservano un secondo o una riga,
ma che a livello degli Stati sono espressione
di gruppi di intervento politico che cercano
di strappare all’astensionismo programmatico
e all’indifferenza proprio le vittime di
quei problemi.
Sono allora queste candidature, che la critica
giudica in modo superficiale o con ironia,
a porre paradossalmente il problema vero:
il sistema politico statunitense è bloccato
e non riesce più nemmeno a dare ali alle
speranze di rappresentanza, di inclusione
sociale, di gestione efficiente dello sviluppo
capitalistico che in passato molti avevano
pensato essere una sua caratteristica. Riuscire
a parlare ai giovani, tirandoli dentro a
più o meno consapevolmente fittizie campagne
presidenziali, riuscire con loro a denunciare
i veri termini di un sistema politico che
vive ormai solo di paure alimentate e di
pacchiane menzogne, di scandali soffocati
da altri scandali, di guerre e di cancellazioni
di diritti, potrà sembrare all’occhio della
tradizione progressista europea qualcosa
di minore, ma qui, in un paese di 9 milioni
di kmq e di 51 Stati, ove il 99% della comunicazione
è in mano ai grandi gruppi economici, è un
compito immane.
Ma tali candidature, si dice, sono un oggettivo
pericolo - soprattutto in certi Stati - per
la lotta comune contro i reazionari che oggi
siedono a Washington. Vero forse, ma c’è
davvero qualcuno che punterebbe un soldo
sul fatto che Kerry - un senatore che, insieme
a quasi tutti i suoi colleghi, ha votato
a favore d’una legge fascista come il Patriot
Act - sarebbe in grado di cambiare questo
corso o di mutare la politica statunitense
in Medio Oriente e in Iraq?
A chi dovrebbe affidare le proprie speranze
di mutamento un giovane del Bronx? Al miliardario
Kerry? Chi lo aiuta a non essere un ribelle
senza causa? Kerry o quelli che, purtroppo
senza molta esperienza e memoria politica
anche loro, sono però almeno lì a dirgli
di ribellarsi contro il potere e non contro
il vicino di casa? Candidati ineffettuali,
certo, ma almeno gente che utilizza anche
le campagne elettorali per seminare una parola
vera, sperando che diventi lotta. Ad essi,
i Democratici non sanno dire altro che “fanno
il gioco di Bush”, anche se proprio quasi
tutti loro il “gioco di Bush” lo hanno votato
in Congresso, più volte e vantandosi pure
buoni patrioti. Sono contro il clan Bush
o contro le sue politiche? “Un’altra presidenza
Bush è un dramma che va evitato ad ogni costo”,
dicono le persone politicamente ragionevoli,
ma alle politiche di Bush l’opposizione dei
Democratici è stata o inesistente o debolissima.
Se, però, il male Kerry è ancora ipotetico,
quello Bush è certo e il senso comune dice
che - a questo livello - non c’è oggi altro
da fare che votare Kerry. Credo lo sappiano
bene anche quelli che - come Nader - dicono
oggi di correre per le presidenziali. Forse
il loro calcolo non è così privo di senso
come sembra, perchè la loro presenza è una
leva che potrebbe spingere i Democratici
a non dimenticarsi dell’elettorato potenziale
di tali candidati e delle sue richieste.
Nei quartieri dei Neri o dei Bianchi poveri
(rednecks, colli rossi, come venivano chiamati
sprezzantemente i braccianti bianchi delle
aree rurali del Sud ed ora i Bianchi che
sono ai margini del sistema), nel Bronx,
a Chicago, Cincinnati, Los Angeles, Detroit,
la politica si chiama sopravvivenza e nè
Kerry nè Bush ne hanno mai saputo, nè ne
sapranno mai, nulla.
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Sergio Finardi lavora negli Stati Uniti come
ricercatore. Si occupa in particolare delle
reti di trasporto dei traffici di armi e,
in Italia, ha recentemente pubblicato con
Carlo Tombola il volume "Le strade delle
armi" (Jaca Book, 2002), presentato
anche a Cremona alla fine del 2002 nell'ambito
di un incontro organizzato da Rifondazione
Comunista. Collabora regolarmente al manifesto.
Questo articolo è pubblicato con autorizzazione
dell'autore.
 
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