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15 Settembre, 2002
Tutti i santi di Don Felice Bosio
I “Vespri d’organo” del maestro Bottini e la scoperta di un patrimonio di fede

Quando una città è fortemente caratterizzata nell’immaginario collettivo - sia esterno che interno - da alcuni “prodotti”, non mancano effetti collaterali indesiderati. A Cremona l’antica arte culinaria è parente povera del turòon, autentici gioielli dell’architettura si ergono all’ombra del Turàas e… forse non conviene continuare su questa linea. Aggiungiamo - fuori rima - che la fama della liuteria non necessariamente ha contribuito ad un adeguato riconoscimento di arti e mestieri storicamente radicati poi “sradicati”. E, per non farci mancare nulla, diciamo che il doveroso tributo a Monteverdi non ha avvicinato ai riflettori altri valorosi musicisti del passato.
Il maestro Paolo Bottini - e il Comitato Organistico Cremonese - persegue il suo obiettivo con tenacia ed intelligenza. Non è l’applauso che invoco per lui ma la meritata attenzione. Gli appuntamenti ogni prima domenica del mese nella chiesa di Sant’Omobono - tralasciando qui gli altri “vespri d’organo” in altre chiese, non meno interessanti - sono di una ricchezza a cui è difficile tessere le lodi senza superlativi. Il maestro Bottini ci avvicina a quello strumento che incute rispetto e meraviglia solo a vederlo troneggiare nelle nostre chiese. Ma lui trova parole semplici per descrivere quel complicato meccanismo che è l’organo “da dentro”. Poi trova bravi maestri giovani che propongono un repertorio mai scontato: Tarquinio Merula (figlio adottivo di Cremona) il mese scorso, Bernardo Storace, messinese, questa domenica, solo per fare due esempi, e per indicare quello squisito gusto della ricerca nella musica sacra e “profana” che non si adagia sulle presunte aspettative del pubblico.

E noi sfidiamo l’inverno della chiesa di Sant’Omobono e, finito l’appuntamento musicale, potremmo dirci ampiamente ripagati da una grande musica barocca valorizzata da un meraviglioso strumento barocco recentemente restaurato, opera della scuola organaria quasi certamente lombarda, in parte forse anche cremonese. Quello che segue è un autentico dono: don Felice Bosio (parroco di S. Agostino e “custode” di S. Omobono) fa da competente guida, altare alla volta, tra opere d’arte raramente viste, non mancando mai di sottolineare la maestria espressa nell’intaglio ligneo o nella lavorazione del marmo dagli abili artigiani locali.
Quelle di don Felice non sono “spiegazioni” ma “narrazioni a due voci”: fa parlare di sé la statua o la tela e ci narra tutto ciò che “loro” non potrebbero dire. Le “storie” di don Felice sono… coinvolgenti, è questo l’aggettivo più appropriato. Parlano a chi è attratto dall’opera d’arte in sé, parlano al devoto che si avvicina alla storia dei santi con la fede nel cuore, parlano a chi nelle storie e nelle leggende dei santi - in particolar modo di quelli da sempre al centro di una grande devozione popolare - leggono una grande metafora di storia sociale. San Felice di Cantalice, raffigurato in una statua della chiesa di S. Omobono o lo stesso S. Omobono, patrono dei commercianti e della città stessa, sono sì figure di rilievo nella storia ecclesiale, ma non di meno appartengono ad una storia cosiddetta minore; incentrata sulla loro emblematica figura oppure da essa partendo don Felice ci narra la storia di una collettività, racconta di vicissitudini di gente dentro o fuori le mura, di coltivatori di bachi da seta, di carità praticata, di fede vissuta.
Don Felice racconta i “suoi santi” che prendono vita davanti ai nostri occhi come in un vecchio film un po’ sciupato dal tempo, evocando vite e morti santificati dalla chiesa e santificati nella memoria collettiva, di “padri” eccellenti della chiesa come di “figli” seppelliti nella miseria. Le narrazioni di don Felice Bosio - e gliene dobbiamo essere grati - ci ricordano che i “nostri santi” e delle “nostre sante” (S. Rita è così vicina…) sono patrimonio di una collettività. Di credenti e di non credenti.

M.T.

 


       



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