15 Settembre, 2002
«Quindici immagini di zingari»
Alla Libreria Ponchielli, fino al 17 febbraio, mostra di fotografie di Vittorio Dotti
Quindici immagini di zingari e un’indagine sullo stimolo perturbante dell’immaginario
tzigano
Mostra fotografica - Libreria Ponchielli, Cremona dal 28 gennaio al 17
febbraio 2006
Notre nature est dans le mouvement. (Pascal)
Tutte le nostre attività sono legate all’idea di viaggio. E a me piace
pensare che il nostro cervello abbia un sistema informativo che ci dà ordini
per il cammino, e che qui stia la molla della nostra irrequietezza. (Chatwin)
Chi non viaggia non conosce il valore degli uomini. (Ibn Battuta, girovago
arabo)
«Siamo signori dei campi, dei maggesi, delle selve e dei monti, delle
sorgenti e dei fiumi […] Dorati tetti e sontuosi palazzi sono per noi queste
tende e questi mobili accampamenti […] » (Miguel de Cervantes, La gitanilla)
I roma (zingari, gitani, carachi, tzigani) sono, per
eccellenza, un popolo di viaggiatori.
Giunti in Europa a partire dal XV secolo, con ascendenze ascrivibili a tribù
originarie dell’India nord-occidentale, gli zingari hanno da allora condotto
una vita errabonda, parzialmente immune dai vincoli sempre più opprimenti che
la sedentarizzazione prima, e l’industrializzazione poi, imponevano alle
popolazioni europee, ma cionondimeno costretti al tentativo d’incunearsi - con
modalità spesso parassitarie, ma non necessariamente illecite - negli
interstizi di una struttura socio-economica assai poco compatibile con lo stile
nomade dell’esistenza.
Questi compromessi col mondo estraneo dei gagè (i ‘non-zingari’),
attuati nel contesto di una civiltà non ancora spietatamente industriale,
permisero tuttavia ai roma di sopravvivere, senza dover rinunciare ai
valori fondamentali della loro cultura e, primo tra questi, alla condizione di
uomini-nomadi (o semi-nomadi).
La inumana urbanizzazione del vivere, impostasi con vigore ineluttabile nel
corso del ventesimo secolo, ha conflagrato le costanti migratorie della civiltà
zigana, prefigurando ai carachi un destino acculturativo cui non erano
naturalmente acclini. Un’acculturazione - oltretutto - che si identifica con
la necessità di uniformarsi ai paradigmi ideologici di una società
pregiudiziosa ed allòfoba.
Ma se alternative a quest’integrazione sono soltanto mendacità e
delinquenza, perché non valorizzare, almeno, la consapevolezza e la nostalgia
della propria specificità perduta?
Inoltre, io credo che gli zingari, al pari e più intensamente di altre
comunità marginali non ancora totalmente omologate (o conculcate) dal violento
progresso della civiltà d’occidente, rappresentino un pungolo di
perturbamento e di difformità salutare per la nostra cultura.
Non so fino a che punto sia sostenibile questa tesi, se riportata al contesto
di una grande area metropolitana. La giudico però pertinente in riferimento
alla comunità Rom di Campobasso, presso la quale ho realizzato, alcuni
anni fa, le immagini esposte.
Nello storico quartiere di Sant’Antonio Abate, in prossimità della salita
al Castello Monforte, vivono circa trecento zingari Rom. Sono la terza e
la quarta generazione dei membri di tre famiglie giunte a Campobasso nei primi
anni del secolo scorso, provenienti con ogni probabilità da Pescara o da
Giulianova e, precedentemente, dalla Penisola Balcanica.
Abbandonate, perché non più remunerative, le tradizionali attività
metallurgiche e le prestazioni agricole stagionali, gli uomini della comunità
si sostentano praticando il commercio dei cavalli, il riciclo di rottami e di
automobili usate, l’usura, nonché svariati lavori saltuari talora prossimi
alle soglie dell’illegalità. Le donne svolgono mansioni domestiche e, in un’epoca
non più sensibile alle virtù chiromantiche e alla taumaturgia degli amuleti,
spesso esplicano il loro talento nel taccheggio minuto e, naturalmente, nel
petulante ‘manghél’ (questua, zingarato).
La scolarizzazione, sia per i maschi sia per le femmine, raramente va oltre
la scuola media inferiore, con la significativa eccezione di talune ragazze che
hanno proseguito gli studi fino alla media superiore.
Eppure, anche a Campobasso, dove nessuna grave motivazione d’ordine
pubblico starebbe a giustificarlo, si avverte l’ostilità e l’irritazione
dei sedentari gagé nei confronti degli ex-nomadi stanzializzati. Questo
discende, secondo me, da quel quas’incondizionato riflesso di rimozione che s’attiva
ogniqualvolta un impulso culturale estraneo - perturbante proprio perché
significativo - entra in risonanza con la buia nostalgia di valori essenziali
che sentiamo perduti (e che gli zingari - ormai soltanto come vestigi
antropologici - si prestano bene a simboleggiare): quell’inestirpato, fiero,
radicale bisogno di sentirsi talvolta pienamente liberi e proiettati all’incontro
di persone e di luoghi misteriosi e nuovi; l’urgenza di non essere sempre e
soltanto le propaggini inerti di acceleratori efferati, che ci sbalzano da
uguale a pari luogo; l’anelito (ingenuo, forse, e malromantico) di mettersi in
cammino, di uscire, muoversi, viaggiare… e allontanarsi (per Dio!, almeno in
sogno) dalla schiavitù di cui tanto invaniamo: “La schiavitù delle
soffocanti città! / Là gli uomini, ammuchiati entro la cerchia, / Non
respirano il fresco mattino, / Né la fragranza primaverile dei prati; /
Si vergognano dell’amore, scacciano i pensieri, / Fanno mercato della loro
libertà, / Davanti a idoli chinano il capo / E implorano ceppi e denaro.” (Aleksandr
Puškin, Gli zingari)
Gli zingari di Campobasso, ex-nomadi sedentarizzati da alcune generazioni,
personificano, a un livello microstorico, il paradosso d’una cultura che
sopravvive e prolifera traendo impeto dalla abnegazione della sua natura. A
differenza dei gagé, mi sembra però che gli zingari conservino una
pungente e dolorosa nostalgia delle libertà perdute. “Oh, com’è bello
vivere, / ascoltare il canto degli uccelli nella notte profonda. […] Oh, com’è
bello guardare verso il cielo, / cogliere nel cuore i fiori azzurri. / Oh, com’è
bello / baciare occhi neri, un volto bronzeo... / Oh, com’è bello il fruscio
della foresta, / che mi suona i suoi canti. […] Quanto vi ho detto, / tutto,
tutto è passato, / tutto, tutto mi è stato tolto […] (Bronislava Wais, più
nota come Papusza, poeta zingara polacca del ‘900).
Accanto a questa disperata tristezza, ho l’impressione che la cultura
zigana custodisca una preziosa capacità di godimento sensibile, di vigore
istintivo e, oltre a ciò, una disposizione immediata alla giovialità, al
gioco, alla festa.
È questa gioiosa vena ottimistica, che pulsa radiosa nei rami superstiti d’un
organismo ormai affranto, che soprattutto ho inteso rappresentare col mio lavoro
fotografico.
Per ciò i bambini che giocano e sorridono; per ciò il figlio che abbraccia
felice - da adulto, da amico - la madre; per ciò il virtuosismo coreutico dell’espléndida
gitanilla campobassana, che sprilla nell’azzurro del cielo su
conturbante llama de pasión. “Niña, lascia che sollevi / la tua veste
per vederti. / Apri a queste dita antiche / la rosa blu del tuo ventre”. (Federico García Lorca, Romancero gitano)
Vittorio Dotti
Bibliografia
Miguel de Cervantes, La zingarella, Einaudi
Aleksandr Puškin, Gli zingari, in Opere, Mondadori
Federico García Lorca, Romancero gitano, in Poesie, Rizzoli
Bronislava Wais (Papusza), Ghilì romanì (Canto zingaro), in Lacio
Drom n.5, 1987
Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza, Adelphi
Françoise Cozannet, Gli zingari: miti e usanze religiose, Jaca
Book
M. Barbieri, B. Nicolini, Zingari: Rom e Sinti, Piemme
Per le notizie relative alla comunità Rom campobassana, sono debitore
alle cortesi comunicazioni personali della Dott.sa Fiora Luzzato di Isernia e
della Dott.sa Ferro di Campobasso.
 
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