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15 Settembre, 2002
Intervista al Ministro degli Esteri
D'Alema: per l'Italia un ruolo nuovo in Medioriente - Enrico Sassoon, Raffaello Matarazzo da www.affarinternazionali.it

L’Italia ha svolto un ruolo importante nella preparazione della Conferenza di Annapolis per il rilancio del processo di pace tra Israele e palestinesi. Si è adoperata in particolare, per la partecipazione dei Paesi arabi, che è stata senza precedenti. Oggi la diplomazia italiana è di nuovo al lavoro in vista dell’appuntamento del 17 dicembre a Parigi, dove si incontreranno i Paesi donatori per la Palestina. È dunque un ruolo attivo quello che, in questa intervista, il ministro degli Esteri Massimo D’Alema rivendica all’Italia in campo internazionale. D’Alema tocca tutti i temi più attuali, dal Medio Oriente al Mediterraneo, dall’Iran alla Russia, dal Pakistan all’Afghanistan, delineando i compiti della politica estera italiana su tutti gli scenari più complessi di un mondo “che presenta certo molti rischi, ma anche grandi opportunità”.

Ministro, come valuta i risultati della Conferenza internazionale sul Medio Oriente che si è appena svolta ad Annapolis e quale è stato il ruolo dell’Italia?
L’Italia ha preso parte alla Conferenza e ha giocato un ruolo attivo alla vigilia per favorirne il successo, anche sul piano della partecipazione dei paesi arabi che è stata assai ampia, come noi volevamo. Va dato il merito alla diplomazia americana, a Bush e a Condoleezza Rice, per l’impegno profuso e il coraggio dimostrato. Ma se il processo di pace dopo sette anni di stasi è tornato al centro dell’agenda internazionale è anche merito dell’Italia e dell’Europa. Abbiamo sempre sostenuto che senza una soluzione del problema palestinese sarebbe stato difficile pensare di stabilizzare il Medio Oriente. I fatti ci hanno dato ragione.

Quali elementi sono emersi per avviare a soluzione la complessa questione del conflitto israelo-palestinese?
Sarà importante, anzi decisivo, assicurare un ‘follow up’ concreto ed immediato a quanto è stato deciso ad Annapolis. Dovremo tutti assumerci le nostre responsabilità, gli Usa, l’Europa, la Russia, in quanto membro del “Quartetto”. Il 17 dicembre si svolgerà a Parigi una Conferenza donatori per la Palestina e anche la Russia si è impegnata ad ospitare un evento agli inizi dell’anno prossimo. C’è una rinnovata volontà internazionale di dare una svolta al negoziato senza però - ed è questa la novità positiva di Annapolis - cadere nuovamente nella trappola di un processo ‘open- ended’ che, in quanto tale, è intrinsecamente fragile: le due parti hanno consentito, infatti, di cercare i termini di un accordo entro la fine del 2008.
L’altro elemento positivo che gioca in favore di una possibile soluzione è la coesione dei paesi arabi sunniti che guardano con preoccupazione all’ascesa dell’Iran sciita e sono interessati a ricercare, tramite la soluzione del problema palestinese, una normalizzazione dei loro rapporti con Israele. Naturalmente il cammino è ancora lungo e difficile e le incognite sono numerose. I possibili “fattori frenanti” che potrebbero interferire sono molti: le divisioni irrisolte nel campo palestinese, l’atteggiamento della Siria (la cui partecipazione ad Annapolis è comunque un fatto positivo), la crisi istituzionale in Libano. Ci sarà bisogno nei prossimi mesi di una costante presenza diplomatica da parte di tutti i membri del Quartetto per evitare il rischio che il processo di Annapolis deragli.

L’Italia, insieme a Francia e Spagna, è anche attivamente coinvolta nella ricerca di una soluzione alla crisi libanese. Qual è il suo bilancio dell’attività della missione Unifil II, nel Sud del paese, e quale crede che potrà essere la sua funzione in futuro?
Il bilancio è estremamente positivo. Parlano i fatti. La missione è riuscita a consolidare la pace al confine tra Israele e Libano. Senza questa pace sarebbe stato impossibile pensare a una ripresa del processo negoziale israelo-palestinese. Il bilancio è positivo anche per l’Italia e per l’Europa. Abbiamo dimostrato come europei di essere pronti ad assumerci responsabilità di sicurezza. Non siamo più soltanto ‘payers’ in Medio Oriente, ma anche, e finalmente, ‘players’. La missione ha un suo mandato ben preciso (la ris. 1701). Ma la sua presenza può avere riflessi positivi più ampi per la regione nel suo complesso. E ciò sarà particolarmente rilevante nei prossimi mesi in cui si dovrà dare seguito concreto agli impegni di Annapolis.

Sullo sfondo della Conferenza di Annapolis c’è stato anche, come lei ha ricordato, il tema dei rapporti con l’Iran. Ritiene che il nuovo round di sanzioni all’Iran, di cui si discute in sede europea, possa avere un ruolo politico positivo per rallentare il programma nucleare, o sarebbero più efficaci altre strade?
Le sanzioni sono uno strumento di pressione politica che può contribuire nel tempo ad alterare il calcolo costi/benefici del regime che le subisce e spingere quindi a una maggiore flessibilità negoziale. In questo senso, la loro efficacia dipende soprattutto dall’ampiezza del numero dei paesi che le applicano. Noi non siamo in linea di principio contrari a sanzioni europee, ma le sanzioni più efficaci sono quelle adottate dal Consiglio di Sicurezza. Per riuscire a cambiare il comportamento del regime le sanzioni devono essere accompagnate anche da incentivi. Questi ultimi servono infatti ad aumentare il costo di un comportamento non cooperativo. L’Iran è interessato a un riconoscimento del suo ruolo regionale. Teheran dovrebbe rendersi conto che otterrà più facilmente questo riconoscimento attraverso la cooperazione sul dossier nucleare che servirebbe a rassicurare anche i paesi della regione. È più vantaggioso e meno costoso per l’Iran stesso guadagnarsi questo riconoscimento regionale attraverso il rispetto dei vicini anziché con la minaccia.

Mentre la comunità internazionale si interroga su come affrontare la proliferazione nucleare in Iran, si è diffuso il timore che la crisi in Pakistan possa aggravarsi, sconvolgendo ulteriormente i già precari equilibri regionali. Cosa stanno facendo l’Italia e l’Unione Europea per cercare di evitarlo?
Dopo le apprensioni delle scorse settimane, gli ultimi sviluppi in Pakistan ci appaiono incoraggianti. Le pressioni internazionali esercitate da più parti, Italia e Ue incluse, vi hanno certamente contribuito e il presidente pakistano sembra aver sostanzialmente recepito gli inviti alla ripresa di un processo democratico che gli sono stati rivolti da più parti. Dopo essersi dimesso da Comandante delle Forze Armate e aver giurato da Presidente in abiti civili, Musharraf ha infatti dichiarato che il prossimo 16 dicembre verrà revocato lo stato d'emergenza. Mentre il Governo sostiene di aver liberato gran parte dei prigionieri politici arrestati nelle scorse settimane, il Presidente ha assicurato il suo massimo affinché le elezioni dell'8 gennaio si svolgano in maniera trasparente, invitando le opposizioni a prendervi parte.
L'Italia e l'Ue rimangono molto attente agli sviluppi di una situazione che appare ancora molto delicata. Una riconciliazione nazionale tra il Governo e le opposizioni democratiche deve essere incoraggiata in ogni modo. La comunità internazionale deve dunque continuare nei suoi sforzi coordinati, ponendo particolare attenzione affinché le elezioni siano effettivamente libere e trasparenti. Anche alla luce della cruciale rilevanza strategica del Pakistan in Asia meridionale, e dei complessi rapporti di Islamabad con Afghanistan e India, dovremo ancora adoperarci per favorire la stabilità della regione.

Quali conseguenze può avere la crisi in Pakistan sull’Afghanistan? Se il conflitto dovesse allargarsi e ci venisse richiesto di aggiornare le nostre regole di ingaggio, che tipo di risposta saremmo in grado di dare?
La situazione in Pakistan dimostra la fondatezza dell’approccio regionale sull’Afghanistan sostenuto da tempo dal governo italiano. Abbiamo sempre detto che in una regione così interconnessa è difficile pensare di poter stabilizzare singolarmente l’Afghanistan se non si stabilizzano anche i vicini, in primis il Pakistan, e se non si crea una cornice di co-responsabilizzazione regionale che impegni tutti i paesi vicini. Era questo il senso della nostra idea di una Conferenza internazionale. Un’idea che resta a mio avviso valida e che bisognerà mantenere in agenda e realizzare al momento opportuno e che abbiamo approfondito qualche giorno fa sia con il Ministro degli Esteri tedesco Steinmeier che con quello francese Kouchner. Nell’ipotesi di un allargamento del conflitto si richiederebbe una risposta politica collettiva della comunità internazionale, e delle Nazioni Unite in primo luogo. La Nato è in Afghanistan su mandato delle Nazioni Unite.

Passiamo alla Russia. Alla luce dei gravi fatti che hanno caratterizzato la recente tornata elettorale e delle pesanti posizioni assunte da Putin su diversi dossier interni ed internazionali, quali sono a suo avviso le prospettive del rapporto tra i paesi occidentali e il Cremlino?
Non c’è dubbio che i rapporti tra la Russia e l’Occidente attraversino oggi una fase non facile. La Russia sta cercando in tutti i modi, e con una nuova assertività, di recuperare il terreno perduto negli anni Novanta; l’Occidente d’altra parte non si è ancora abituato a questa nuova situazione. Credo che vi siano responsabilità reciproche alla base delle recenti difficoltà. L’Europa non è riuscita finora a esprimersi con una voce unica nei confronti della Russia e l’Occidente in generale non ha trovato un linguaggio coerente, chiaro e realistico nei confronti di Mosca. D’altra parte la Russia dovrebbe anch’essa capire che è poco utile cercare di definirsi contro l’Occidente per affermare il suo rango: è un grande paese, membro del G8, del Gruppo di Contatto, che ha stabilito un rapporto paritario con la Nato tramite il Consiglio Nato-Russia. Ed è soprattutto un paese europeo con cui l’Europa e l’Occidente vogliono stabilire un rapporto di stretta e reciprocamente vantaggiosa collaborazione.
Si tratta quindi di superare un certo deficit di fiducia che ancora esiste. In ogni caso, al di là dell’ottimo rapporto bilaterale italo-russo, la realtà è che Europa e Russia hanno bisogno l’una dell’altra, sono fortemente interdipendenti sul piano dell’energia, del’economia e della soluzione dei problemi della sicurezza globale, dalla non proliferazione al terrorismo. È un problema di tempo, ma il rapporto con la Russia ha buone prospettive di consolidamento. Due processi mi sembrano particolarmente importanti: l’ingresso della Russia nell’Omc e la sua piena integrazione nel sistema di regole comuni dell’economia mondiale; e il fatto che l’Unione Europea rinnovi su basi più solide, con un nuovo Trattato, il suo rapporto con la Russia.

Lei ha più volte affermato che l’Italia deve esercitare fino in fondo il suo ruolo regionale nel Mediterraneo. Quali passi concreti sta compiendo l’Italia e cosa pensa del progetto di Unione mediterranea avanzato da Sarkozy?
L’Italia ha ovviamente l’interesse a vedere un’Europa con una forte vocazione e dimensione mediterranee, in grado di svolgere un ruolo attivo sul piano globale, rivolta quindi non solo ad Est, ma anche a Sud. In questo senso vediamo positivamente le iniziative che valorizzano il Mediterraneo e la cooperazione concreta con i paesi di quell’area. Stiamo studiando i dettagli della proposta francese. Riteniamo che qualsiasi nuova iniziativa debba comunque servire a rafforzare quanto l’Unione Europea sta già facendo verso i paesi del Mediterraneo nel quadro del processo di Barcellona e della politica di vicinato, ma ciò senza inficiare la prospettiva europea della Turchia. Riteniamo infatti che un’Europa con forte dimensione mediterranea e protagonista sulla scena globale possa solo trarre vantaggio dall’ avere la Turchia tra i suoi membri.

Un’ultima domanda: quali sono gli obiettivi della nuova “Unità di riflessione strategica” che è stata appena costituita all’interno del Ministero degli Esteri?
L’obiettivo del Gruppo di Riflessione Strategica - guidato da Marta Dassù come responsabile scientifico e da Maurizio Massari, capo dell’Unità di Analisi e Programmazione, come coordinatore - è quello di svolgere un approfondimento sugli interessi nazionali strategici dell’Italia in un’ottica di medio e lungo periodo. Si tratta di riflettere sul ruolo e le opzioni internazionali per l’Italia in un mondo sempre più complesso e in rapida trasformazione, che presenta allo stesso tempo forti rischi ma anche grandi opportunità. È un approfondimento per il quale sono necessari gli input dei vari settori della società italiana, dalla diplomazia, al mondo economico, a quello accademico, alla società civile. Il Gruppo di Riflessione Strategica ha il compito di mettere insieme questi input e di presentare delle proposte operative. Un esercizio assai simile lo stanno conducendo in questi mesi anche altri paesi europei, in particolare francesi e inglesi, con i quali ci consultiamo costantemente. I problemi internazionali sono sempre più comuni e richiedono soluzioni comuni.

Enrico Sassoon è Direttore responsabile di AffarInternazionali; Raffaello Matarazzo è ricercatore dell’Istituto Affari Internazionali e caporedattore di AffarInternazionali.

10/12/2007

 


       CommentoFonte www.affarinternazionali.it



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