15 Settembre, 2002
Lo scenario economico internazionale (di Antonio Martino)
Idee per il libero mercato del professore emerito di economia presso l'Università Luiss di Roma e membro del parlamento italiano - Che l'ex ministro della difesa ce l'abbia un po' anche con Tremonti?
Premessa
Mi scuso per il carattere monotematico di quanto dirò. Chi accetta l'ambizioso tema dello scenario economico internazionale dovrebbe sforzarsi di essere
il più ecumenico possibile, guardare all'insieme dei fenomeni che caratterizzano il nostro tempo, non dedicare la sua attenzione ad un solo argomento.
Tuttavia, ho preferito deludere quanti si aspettavano una visione d'insieme,
concentrandomi su un pericolo grave per il futuro delle economie del mondo.
Non è un pericolo nuovo, si tratta di qualcosa che ha dietro una storia secolare
ma, dal momento che sembra che ci si rifiuti di ricordare il passato, per scongiurare il rischio di essere condannati a ripeterlo, mi dedicherò ad un argomento che sul quale il parere degli economisti è quasi unanime.
Una rivoluzione planetaria
Negli ultimi vent'anni una rivoluzione ha interessato l'intero pianeta, senza
suscitare l'attenzione che avrebbe meritato. A partire dalla fine degli anni Ottanta, il numero di regimi dittatoriali è considerevolmente diminuito. L'America latina, per molti anni dominata da dittature, se ne è poco per volta liberata,
passando in molti casi a sistemi autenticamente democratici. La dissoluzione
dell'"impero del male" ha dato vita a regimi che, se non hanno tutte le credenziali di una vera democrazia, sono distanti dalle caratteristiche più liberticide del comunismo sovietico. In Cina, gradualmente, una parvenza di libertà
economica ha mostrato con grande evidenza la superiorità di un'economia di
mercato rispetto al collettivismo comunista.
D'altro canto, in quasi tutti i Paesi del mondo l'inflazione è diminuita considerevolmente. Ancora una volta, il cambiamento più rilevante ha riguardato
l'America latina, dove per decenni l'inflazione a due o tre cifre veniva considerata inevitabile; ma il fenomeno non è stato confinato a quella zona del pianeta, riguardando un po' tutti i Paesi. In Gran Bretagna, Stati Uniti ed Italia,
per esempio, negli anni Settanta un'inflazione a due cifre non era considerata
eccezionale. In Italia il tasso di crescita dei prezzi è stato superiore al 10% dal
1973 al 1984; in Gran Bretagna la signora Thatcher ereditò un tasso d'inflazione a due cifre dai suoi predecessori e negli Stati Uniti Ronald Reagan si trovò a dovere fare i conti con un "misery index" (concetto bizzarro che sommava il tasso d'inflazione e quello di disoccupazione) superiore al 20%.
Non basta. Negli anni Sessanta ed in misura superiore nei Settanta in quasi
tutti i Paesi i bilanci pubblici esibivano disavanzi paurosi e lo stock di debito
pubblico era in rapida crescita ovunque. Come se non bastasse, molti economisti sostenevano che le politiche di "finanza allegra" fossero utili a promuovere lo sviluppo
economico e l'occupazione e che l'inflazione fosse compagna inseparabile della crescita e fondamentale rimedio alla disoccupazione. Queste idee sono state consegnate
alla pattumiera della storia dalla rivoluzione intellettuale che ha avuto nel mio
maestro,
Milton Friedman, il suo esponente principale. Ma non è stata la "controrivoluzione
nella teoria monetaria" a determinare da sola il cambiamento epocale che ha riguardato
il mondo. Siamo passati dalla finanza allegra all'autentica ossessione per
l'ortodossia
finanziaria, i disavanzi pubblici si sono ridotti in tutto il mondo, lo stock di
debito viene
visto come una sciagura imperdonabile e ovunque si fa il possibile per riportare i
bilanci in pareggio e ridurre le dimensioni del debito.
E ancora, fino all'inizio degli anni Ottanta la fiscalità è stata in rapida crescita
ovunque, la sua necessità vigorosamente sostenuta e propugnata da schiere di sedicenti
economisti e consiglieri del principe, aliquote punitive erano la regola. Oggi, in
tutti i
Paesi del mondo ci si chiede come ridurre le aliquote, come passare ad una fiscalità
meno onerosa, come "tagliare le tasse" e, sia pure in misura diversa nei vari Paesi,
la
fiscalità è in calo in molti Paesi.
Quali sono le cause di questa straordinaria rivoluzione mondiale? Com'è ovvio, in
ognuno dei casi menzionati ci sono state cause particolari, circostanze speciali, così
come è indubbio che la rivoluzione delle cose sia stata preceduta e causata anche da
quella delle idee. Ma, a mio avviso, più delle circostanze contingenti e del profondo
cambiamento del clima intellettuale un poderoso elemento comune a tutti i cambiamenti intervenuti nel mondo in senso liberale, sia in politica sia in economia, è
stato
rappresentato da un fenomeno antico, ribattezzato con un nome moderno, che ha assunto un significato molto più profondo che in passato: la "globalizzazione".
Globalizzazione è un termine nuovo per un fenomeno antico: da sempre i cittadini di
Paesi diversi, anche lontani, intrattengono rapporti commerciali reciprocamente vantaggiosi. Grazie ad essi, le conoscenze varcano i confini di un Paese e si
diffondono in
altri, le più efficienti tecniche di produzione divengono accessibili anche ad altri
Paesi,
la tendenza alla specializzazione produttiva si diffonde, la concorrenza
internazionale
sprona la ricerca di una sempre maggiore efficienza, il ventaglio di alternative
offerte
ai consumatori si amplia ed il benessere si diffonde nel mondo. Non solo, ma, quando
sono impegnati a commerciare con reciproco vantaggio, i Paesi sono meno inclini alla
litigiosità; come sosteneva Bastiat nel diciannovesimo secolo: "dove non passano le
merci, passano gli eserciti". Il libero commercio internazionale forse non costituisce
condizione sufficiente di pace ma credo ne sia condizione necessaria, perché il tentativo di impedirlo col protezionismo è stato spesso causa di guerre, commerciali prima
guerreggiate poi.
Rispetto al passato, la globalizzazione degli ultimi due decenni differisce
soprattutto
perché, grazie al progresso delle comunicazioni, riguarda in misura che non ha precedenti la mobilità internazionale dei capitali. E' questa, a mio parere, la causa prima
della rivoluzione planetaria di cui si è detto. Il fatto che i capitali possano
spostarsi da
un Paese ad un altro, infatti, dà vita ad un "meccanismo di filtro" che penalizza i
comportamenti sbagliati e premia quelli virtuosi. Un Paese che tiranneggia i suoi
cittadini
scoprirà presto che i capitali hanno varcato le frontiere per approdare in Paesi meno
liberticidi. Un Paese che non garantisce la stabilità del potere d'acquisto della
moneta
avrà la stessa esperienza perché i capitali andranno verso Paesi dove l'inflazione è
bassa. I Paesi che tartassano i propri cittadini, quelli che si danno a politiche di
finanza
allegra, quelli che impediscono con restrizioni varie il libero svolgimento delle
attività
produttive, avranno tutti la stessa esperienza: verranno penalizzati dalla fuga dei
capitali verso lidi più accoglienti. La concorrenza internazionale fra politiche diverse
pone
in essere un circolo virtuoso che fa sì che sia nell'interesse di ogni Paese
tutelare il
potere d'acquisto della propria moneta, gestire con prudenza i conti pubblici, non
abusare del torchio fiscale, rispettare le libertà dei cittadini, consentire il libero
svolgersi
delle attività produttive – in una parola, grazie alla mobilità internazionale dei
capitali,
conviene a tutti i Paesi l'adozione di politiche liberali.
Significa questo che l'abuso della sovranità nazionale è diventato impossibile? Sfortunatamente non è così. Gli Stati nazionali possono sempre abusare della propria sovranità e continuano a farlo, spesso a danno dei propri cittadini. Significa questo
che
siamo alla "fine della storia", che d'ora in avanti tutti i Paesi diverranno
liberali? Ovviamente no. Sarebbe sbagliato, tuttavia, negare l'esistenza del fenomeno ed ancora più
sbagliato revocarne in dubbio la desiderabilità.
L'Europa e la globalizzazione
L'apertura internazionale è particolarmente importante per il Vecchio Continente
per gravissime ragioni demografiche. I demografi definiscono moribonda una nazione
quando il tasso di fertilità scende a 1,5 o a valori inferiori. In base a questo
criterio, sono
30 le nazioni europee moribonde. L'Italia è il Paese che sta peggio: in una
graduatoria
di 226 Paesi si colloca al 212° posto con un indice di fertilità pari a 1,28. Il
declino della
popolazione è solo un aspetto di una vicenda che non è esagerato definire drammatica,
un altro aspetto è rappresentato dall'invecchiamento. In un rapporto distribuito a
margine della conferenza promossa dalle Nazioni Unite sull'argomento, svoltasi a Madrid
nell'aprile 2002, si sostiene che l'Italia è, fra i Paesi considerati, quello che ha
la più
alta percentuale di ultrasessantenni sulla popolazione globale, circa il 25%. Non
solo,
ma ha anche il dubbio privilegio di avere la più bassa percentuale di ultrasessantenni
nella forza lavoro: solo il 14%, contro il 23% degli Stati Uniti e l'incredibile 45%
del
Giappone. Non solo siamo il Paese più vecchio e quello in cui la popolazione diminuisce più rapidamente, siamo anche quello che più considera vecchi gli ultrasessantenni,
emarginandoli dalla forza lavoro.
In prospettiva queste tendenze demografiche significano chiaramente che l'Europa
tutta, e l'Italia in particolare, sono condannate al declino. Per questo il Vecchio
Continente non può permettersi di essere introverso, chiuso ai rapporti internazionali.
Solo
le grandi opportunità offerte dai potenzialmente grandi mercati asiatici possono
offrire
uno sbocco ai suoi prodotti, solo gli investimenti degli operatori di quei mercati
possono fornire alle sue imprese i capitali necessari agli investimenti produttivi, solo
la mano
d'opera proveniente dall'estero può sopperire all'inevitabile carenza di lavoratori.
Non
possiamo permetterci di chiudere le porte a quanti vogliono venire da noi a lavorare,
all'afflusso di investimenti esteri nelle nostre imprese, magari per acquisirne la
proprietà, né possiamo rinunciare ai benefici dell'interscambio che non significa
soltanto
afflusso di merci importate ma anche la possibilità di esportare i nostri prodotti.
La chiusura internazionale costituisce sempre un grave errore, ma mentre Paesi demograficamente sani come gli USA, che hanno un tasso di fertilità pari a 2,1, possono
forse permettersi questa follia, l'Europa tutta e l'Italia in specie non possono
fare altrettanto.
I nemici della globalizzazione
Che gli statalisti di tutto il mondo siano furibondi per via dei limiti che la
globalizzazione impone all'abuso del potere statale è comprensibile, così come non stupisce che
gli orfani del comunismo sovietico siano ferocemente (ed in molti casi violentemente)
avversi al fenomeno. Ma non sono soltanto i no-global e gli orfani di Stalin gli
avversari
della libertà economica internazionale, ci sono come sempre anche i difensori degli
interessi corporativi, quanti sono costretti dal libero commercio internazionale a
rinunziare alle rendite cui sono abituati. Come sostenuto con la consueta efficacia da Adam
Smith, i fautori delle restrizioni al commercio internazionale sono stati "non i
consumatori, il cui interesse è stato totalmente trascurato, ma i produttori ... e tra
costoro i
nostri mercanti e manifattori" (Ricchezza delle nazioni, edizione italiana, Utet,
Torino
1958, pag. 602)
Le tesi dei protezionisti sono diventate in apparenza più raffinate, restando tuttavia
grossolanamente false nella sostanza. E' di moda oggi sostenere che il protezionismo
è reso necessario per contrastare la concorrenza "sleale" di Paesi che, come la Cina e
l'India (immaginosamente accomunate col termine "Cindia"), praticano il "dumping
sociale" e quello ambientale perché i loro standard di protezione sono più bassi dei
nostri. Si tratta di una crudele sciocchezza: i salari e le condizioni di lavoro nei
Paesi poveri sono meno elevati dei nostri per la semplice ragione che quei Paesi sono più
poveri
di noi e lo stesso vale per gli standard di protezione ambientale. Anche in Italia i
salari
e la protezione ambientale erano bassi quando eravamo poveri, hanno raggiunto il
livello attuale grazie allo sviluppo economico, al fatto che siamo diventati meno
poveri.
Lo stesso accadrà in Cina ed in India quando, grazie alla crescita economica, quei
Paesi
potranno permettersi salari più alti e standard di protezione sociale ed ambientale
più
alti. Sostenere che dobbiamo gravare i loro prodotti di oneri tariffari equivale a
dire che
i Paesi poveri devono essere puniti per la loro povertà.
Né queste sciocche misure protezionistiche vanno a vantaggio dei Paesi che le adottano, perché le alternative offerte ai consumatori si restringono – hanno una minore scelta e devono subire prezzi più alti – e perché, sottraendo i produttori
nazionali
alla disciplina della concorrenza internazionale, li si condanna a livelli di
efficienza più
bassi di quanto sarebbero altrimenti. Né va sottaciuto che, inevitabilmente, i provvedimenti restrittivi finiscono col produrne altri per ritorsione col risultato che il
livello
complessivo del commercio internazionale si riduce con danno per tutti i Paesi.
Le interferenze statali nel funzionamento dei mercati sono responsabili anche della
recente impennata dei prezzi dei prodotti alimentari. L'Unione Europea, il Giappone e,
in misura minore, gli Stati Uniti da tempo adottano una serie di incentivi e misure
dirette a scoraggiare la produzione: le politiche di "set aside" che inducono gli
agricoltori
americani a non coltivare per intero i fondi di loro proprietà, le quote massime
imposte
alla produzione di certi cibi, come le famigerate "quote latte" della politica
agricola europea e la miriade di altre misure introdotte col nobile proposito di difendere il
reddito
degli agricoltori hanno di fatto reso più rigida l'offerta col risultato che
l'aumento della
domanda si è scaricato prevalentemente sui prezzi anziché incentivare la produzione.
Anche in questo caso si tratta di miopi provvedimenti di chiusura al commercio internazionale che, per tutelare i produttori nazionali, danneggiano i consumatori e
condannano i Paesi poveri al sottosviluppo.
Conclusione
Viviamo in un'epoca straordinaria: non abbiamo mai vissuto così a lungo né così
bene, non siamo mai stati così ben nutriti, curati, abbigliati, intrattenuti,
trasportati
e ricchi nella millenaria storia dell'umanità. Gli straordinari vantaggi di cui
godiamo
non ci sono stati graziosamente elargiti dalla Provvidenza divina e non sono il frutto
di illuminate politiche riformatrici. Sono il risultato del lavoro, dell'impegno e
dell'intelligenza di miliardi di uomini e donne, ognuno dei quali si è dedicato al suo lavoro
per ricavarne un beneficio personale e, così facendo, ha anche non intenzionalmente
realizzato l'interesse dei suoi simili. E' stato il coordinamento spontaneo
dell'attività di
miliardi di persone in tutti i Paesi del mondo che nel corso dei secoli ha
consentito all'umanità di crescere, di prosperare, di progredire. La libertà delle relazioni
economiche
fra persone diverse non solo all'interno di uno stesso Paese ma anche abitanti in
Paesi
diversi, la "mano invisibile" del mercato, ha fatto raggiungere alla condizione umana
livelli sempre più alti. Non possiamo consentire alla miopia degli incolti di
intralciare il
funzionamento dell'unico vero motore di crescita e di benessere diffuso. Come in passato, se vogliamo guardare al futuro con speranza e con ottimismo dobbiamo impedire
alle forze ostili all'apertura internazionale di prevalere.
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