«Questa festa è un momento di intensa espressione collettiva e produce una
riattualizzazione ciclica delle grandi figure sociali che hanno lasciato un
segno nella storia. Si tratta della carità, della solidarietà, della famiglia
e dell’infanzia. La celebrazione nella forma familiare come la conosciamo
oggi, cioè la famiglia radunata a tavola per il cenone con il bambino come
protagonista, non ha più di centocinquant’anni: è nata alla metà dell’Ottocento
in Europa e negli Stati Uniti. In quell’epoca la compassione per i bambini
poveri e vagabondi (memorabilmente descritti da Dickens) diventa un motivo
costante e dominante dell’immaginario natalizio. Gli antropologi e gli storici
anglosassoni, analizzando il sorgere di questa nuova forma di celebrazione,
hanno parlato senza esitazione di “invenzione di una tradizione”. Certo, c’è
sempre un rischio nell’impiego di termini del genere, perché niente nasce dal
niente: a guidare le aspirazioni di una società, a dare forma a quello di cui
una società si appropria, sono la sfera rituale, quella religiosa, quella
socioeconomica.»
A scrivere questo è Martyne Perrot (ricercatrice in un centro studi
interdisciplinari in sociologia, antropologia e storia già diretto da Edgar
Morin) nel suo libro Etnologia del Natale (edizione italiana Elèuthera,
2001).
«Mentre molte ricorrenze tendono a sparire, questa pare rafforzarsi man mano
che viene adottata e reinterpretata da altre culture. In quest’ottica il
Natale si presenta come esempio privilegiato che da modo di riflettere su quelli
che sono talvolta sbrigativamente definiti gli effetti della “globalizzazione”.»
In realtà, M. Perrot si occupa non del solo Natale ma del ciclo dei
dodici giorni dal Natale all’Epifania: «un periodo dell’anno che è
sempre stato propizio alla comunicazione tra il mondo dei viventi e quello dei
morti», «che non appartiene più all’anno vecchio e non è ancora di
quello nuovo», tempo del meraviglioso, del magico; dodici
giorni, ciascuno dei quali sta a prefigurare un mese dell’anno nelle profezie
per il raccolto dell’anno nuovo…
(Sia consentita una divagazione rispetto all’ambito della ricerca della
Perrot. Sono dodici anche i giorni tra Natale e Santa Lucia - nell’Europa
Orientale conosciuta con nomi equivalenti e sovrapposta ad una figura femminile
più da “strega buona” che da “santa”. Chi della mia generazione - forse
ultima - non ha estratto un biglietto dai 12 custoditi sotto il cuscino per
sapere, la notte di Natale, il nome del futuro marito…)
Non c’è spazio per accennare alle “sopravvivenze pagane” (ovvero ai
riti del sacro non cristiano), al significato - o ai significati - della luce
nei riti d’inverno, e non possiamo che rimandare al libro per ripercorrere le
fasi del processo di consolidamento della festa cristiana così come la viviamo
oggi: la festa di Natale celebrata il 25 dicembre è ancora sconosciuta ai
cristiani del primi tre secoli e comincia a diffondersi da Roma dal IV secolo.
Sovrapponendosi al culto del “Sol invictus”.
Non meno interessante è la “biografia di Babbo Natale” di cui potrebbe
essere il - o “un” - legittimo ascendente San Nicola. San Nicola di Bari di
cui la Chiesa celebra il giorno della morte - 6 dicembre - e non della nascita
(privilegio concesso soltanto a Gesù, a Maria e a Giovanni Battista), vescovo
dei primi secoli, autore di miracoli a beneficio, molto spesso, di bambini. Lo
si rappresenta perciò, nell’iconografia popolare e “dotta”, mentre reca
doni ai bambini. La Controriforma favorirà l’abbandono del santo (per troppa
“popolarità”?) e la sua figura - anche nei paesi del protestantesimo che
respinge il culto dei santi - si “confonderà” con una figura maschile, un
“babbo inverno” un po’ ambiguo, che può portare via i bambini
indisciplinati come può portare loro dei doni. Ma nemmeno la figura del vescovo
buono dalla “generosità selettiva” resiste a lungo a colui che arriva dal
Nuovo Mondo: Santa Claus. Il “nostro” Babbo Natale, dal berretto
rosso e la barba bianca.
Questo Santa Claus - Babbo Natale ha una biografia conosciuta nei dettagli:
nasce alla fine del secolo XIX in un racconto natalizio con tanto di autore,
cambia fisionomia attraverso le illustrazioni, arriva agli onori di essere - per
mezzo del sogno di un immigrante olandese - “fondatore” e santo tutelare di
New York.
«Negli Stati Uniti la popolarità di Santa Claus continuò a crescere,
sfruttando e nello stesso incarnando “l’ideologia del successo individuale e
dell’importanza dei simboli della ricchezza”. Viziando sempre più i
bambini, offrendo loro regali sempre più costosi e lussuosi, Santa Claus si
affermava come simbolo sia della generosità nazionale sia del successo
materiale, e diventa in tal modo uno strumento di promozione commerciale senza
precedenti. Nel 1930 … la Coca-Cola, che vuole allargare il proprio mercato
coinvolgendo un pubblico più giovane, chiese a Haddon Sublom di utilizzare
Santa Claus come argomento pubblicitario. Il bianco e il rosso del marchio della
Coca-Cola hanno determinato così i colori del Babbo Natale contemporaneo. La
storia americana del personaggio, cominciata nel timore della miseria generata
dal capitalismo nascente, riceve così una spinta propulsiva proprio grazie a
uno dei simboli più popolari di quel capitalismo.»
Estrapolando pochi punti forse si è fatto scempio della straordinaria
ricchezza di dati intessuti in un testo piacevolmente scorrevole come solo la
migliore saggistica sa fare. Storia, antropologia culturale, folkloristica,
sociologia che danno per risultato quasi un “romanzo di Natale”.
M.T.