15 Settembre, 2002
Al Mondomusica 2005 «Derby del violino»
Ha vinto Cremona 128 a 65. - Orazione per esaltare i pregi di Cremona e di Brescia tenuta dai sindaci delle due città
Nell'ambito del salone Mondomusica si è svolto questa mattina il primo
storico Derby del violino, un confronto organizzato allo scopo di
evidenziare le diversità e le specificità delle due scuole liutarie, cremonese
e bresciana, che hanno contribuito alla nascita, allo sviluppo ed al
miglioramento di una tecnica che ha in seguito trovato in Stradivari la sua
massima espressione. Ha vinto Cremona 128 a 65. Dopo il raffronto tra le tecniche liutarie di Cremona e
Brescia e dopo il confronto del suono tra i due violini, l'Hammerle di Nicola
Amati e il Giorgio III di Giovanni Paolo Maggini, grazie all'interpretazione del
maestro Sergej Krylov, è toccato ai Sindaci delle due città, Gian Carlo Corada
per Cremona e Paolo Corsini per Brescia, tenere un'orazione per esaltare i pregi
di Cremona e di Brescia sul fronte storico, culturale ed artistico. Trasmetto
qui di seguito, per opportuna conoscenza, l'intervento pronunciato in questa
occasione dal Sindaco di Cremona Gian Carlo Corada.
DE MAGNIFICENTIA ET EXCELLENTIA CREMONAE (nel '500)
La “più cortese, magnanima e liberale che sii in Lombardia” dice della
città di Cremona nel 1569 l’incisore Giovanni Maria Cipelli. E un personaggio
di lui assai più influente, don Luis de Requesens, governatore dello Stato di
Milano, scrive al Re di Spagna Filippo II, nel 1573: “La città di Cremona è
la prima di questo Stato dopo Milano e una delle migliori d’Italia”.
Ed in effetti era così.
Popolosa per i criteri dell’epoca (tra i 35 ed i 40.000 abitanti per tutta la
seconda metà del XVI secolo) era fiorente per attività manifatturiere e
mercantili di grande rilevanza, favorite dalla presenza del Po, ancora
utilizzato come via di comunicazione, e dall’essere ubicata ai confini dei
Ducati indipendenti di Parma, Modena e Mantova e della Serenissima Repubblica di
Venezia.
Il contado, poi, era fertilissimo e nelle annate non di carestia arrivava ad
esportare fin quasi la metà dei propri raccolti.
Certo, le condizioni di vita dei ceti bassi, in città come in campagna, erano
difficilissime e spesso scoppiavano rivolte, come quella in città dei
tessitori, nel 1531-32, o quella a Castelleone, nel 1476, contro la tassa detta
“sulle bocche”, quasi contemporaneamente ad una terribile invasione di
cavallette e ad una piccola epidemia di peste.
Ma altrove, in Italia per non dire del resto d’Europa, le condizioni erano
ancor peggiori. Nelle aree pedemontane, ad esempio, la miseria era maggiore, o
nel centro e sud del Paese. Nell’Italia spagnola, comunque, le rivolte
maggiori, quasi sempre contro questa o quella tassa, avvennero a Napoli e nel
sud.
D’altra parte, Cremona era stata nel passato anche più potente, se non forse
più ricca. E non alludo alla Cremona romana, della tarda Repubblica e del primo
Impero, quando Mediolanum era meno importante della florida colonia sul Po.
Penso alla Cremona medioevale, alla città filoimperiale di Federico I e di
Federico II. Quando Milano venne distrutta dal Barbarossa, per un breve periodo
fu concreta la possibilità che fosse Cremona ad assumere un ruolo egemone in
Lombardia.
La Cremona dei Patari e degli Umiliati, di S. Omobono e di Albizia, la “muliercula”
che, con grande scandalo dei benpensanti, arrivava a predicare in Duomo, la
Cremona di allora, pur litigiosa e divisa (sorsero addirittura due “municipi”,
l’attuale ed il Cittanova), fu una “media potenza” del tempo.
Ma anche dopo, nell’epoca dei Visconti e degli Sforza, fu città di grande
rilevanza. Legatissima a Bianca Maria Visconti ed a Francesco Sforza, e dopo la
di lui morte ancora alla vedova (tant’è che quando Bianca Maria morì, nelle
cancellerie europee corse voce fosse stata avvelenata dal figlio, oltre che per
i continui contrasti, per avere cercato di staccare Cremona dallo Stato di
Milano), fu destinataria da parte loro di investimenti e di grandi attenzioni.
Nello Stato di Milano dunque, dal 1535 passato stabilmente al Regno di Spagna
(unione solo di “corone”, non una fusione o un’occupazione), Cremona
occupa un posto di eccellenza.
L’altra città lombarda che avrebbe potuto contenderle il secondo posto era
appunto Brescia. Ma Brescia era in un altro Stato, la Serenissima. Francesco
Sforza aveva dovuto, dopo varie vicissitudini, cedere con la pace di Lodi del
1454, Brescia, Bergamo e Crema alla Repubblica di Venezia. Colpa di un frate,
scrisse con rammarico soprattutto per Crema (che come un cuneo entrava nel
territorio del suo Stato), macilento e col pizzetto, che nel momento cruciale
delle trattative, quando ancora poteva “portare a casa qualcosa”, gli portò
l’ingiunzione del Papa a cedere.
Con Brescia i contrasti erano di lunga data, forse fin dagli albori, quando a
Brescia si insediarono i Liguri e nelle valli restarono i Retii. Per le acque
dell’Oglio anzitutto, fondamentali per l’irrigazione. Per la concorrenza dei
mercanti e per scontro di aree di influenza. Per diversa collocazione “geopolitica”
diremmo oggi. Nel medioevo Cremona filoimperiale e Brescia quasi costantemente
antimperiale e filopapale battagliarono in continuazione. Nel 1191 i Cremonesi
subirono l’onta, dopo la sconfitta nella battaglia di Pontoglio, detta della
Malamorte, di vedersi catturato il Carroccio.
Ma nel 1212, all’inizio della straordinaria avventura di Federico II, furono
proprio i cremonesi a sostenere il giovane pretendente alla corona imperiale,
togliendolo dalle mani dei Milanesi che stavano per catturarlo. “Federico
bagnò il fondo delle braghe nel fiume”, scrisse con disprezzo un cronista di
parte avversa. Ma i Cremonesi lo salvarono forse dalla morte, certo dalla
prigionia. E la storia cambiò. Milanesi e Bresciani non lo perdonarono mai ai
nostri avi. Come non perdonarono mai la cattura da parte cremonese e di Federico
II del Carroccio milanese nella battaglia di Cortenuova del 1237.
All’epoca degli Sforza e poi nel Cinquecento, Cremona e Brescia vissero dunque
in due Stati diversi. Cremona fu sottomessa a Venezia solo per un periodo
brevissimo, dal 1499 al 1509 (anche se, possiamo notare con curiosità, fu
proprio in quel periodo che nacque Andrea Amati). Brescia per lungo tempo.
Città vicine e di confine, Cremona e Brescia. Confini permeabili, rifugio di
banditi, varcati ogni giorno da spie ed infiltrati di ogni tipo, pronti a
sobillare ad ogni comando dei rispettivi signori. Tempi di ferro e di fuoco.
Molte sono però anche le somiglianze.
Soprattutto, le due città furono accomunate, nel ?500, dallo stesso destino di
essere, in due Stati diversi, forti e ricche, ma “periferiche” rispetto alla
capitale. Non autonome e quindi con poco peso nelle decisioni. Mantova e Parma,
ad esempio, con minori potenzialità, erano però capitali di piccoli Stati. E
questo significava molto. Specialmente per quanto riguardava la capacità di
richiamo di artisti ed intellettuali, grazie alle straordinarie committenze dei
Signori. Paradossalmente (ma non troppo), quanto più lo Stato era piccolo,
tanto più il Signore aveva necessità di affermare il proprio prestigio
attraverso lo sfarzo della Corte e le committenze artistiche.
A Brescia e Cremona questo non poteva avvenire e le committenze diciamo così
“di Stato” mancavano. Mancavano più, però, a Cremona che a Brescia,
perché Venezia era comunque una capitale autonoma, Milano no. Nessun
Governatore spagnolo avrebbe mai osato tenere “Corte” propria o svolgere una
politica autonoma di prestigio: il Re di Spagna temeva spinte autonomistiche a
Milano ed il “prestigio” e “l’onore” erano conquistati, oltre che a
livello militare, con il mecenatismo.
Da Cremona quindi la “fuga dei cervelli” fu più intensa. E meno verso
Milano che direttamente verso la Spagna. I casi più noti sono quelli di Janello
Torriani, Sofonisba Anguissola, più tardi il Bertesi. Ma tanti furono i “minori”,
gli sconosciuti, che presero la via dell’emigrazione. Oppure se ne andavano a
Mantova e Venezia. Pensate a Monteverdi o al figlio di Stradivari.
Ma se se ne andavano, vuol dire che c’erano, direbbe Monsieur de La Palisse!
Ed allora veniamo all’ultima parte di questa mia trattazione: lo straordinario
sviluppo culturale, musicale ed artistico della Cremona del '500.
Gli storici l’hanno notato.
“Quanto e come fossero colti i diversi strati sociali cremonesi del
Cinquecento rispetto, poniamo, a quelli milanesi, o pavesi, o padovani o
bresciani” è oggi impossibile sapere con certezza, afferma Giorgio Politi. E
continua: “Qualche indizio, però, può essere trovato, e questi elementi
rendono plausibile l’ipotesi che l’aristocrazia cremonese dell’epoca fosse
assai colta, con una preferenza spiccata verso due ambiti disciplinari: la
musica, vocale e strumentale, e la pittura”.
Di più: colta era, dimostra Politi, anche la “categoria” degli
amministratori, dei “politici” diremmo oggi. Colti erano i Podestà, ma
anche i membri del Consiglio cittadino, che erano in grado di seguire ed
apprezzare discorsi ufficiali in latino letterario. (Detto tra parentesi e senza
offesa per nessuno, quanto sarebbe bello se oggi amministratori e politici
fossero costretti a leggere almeno un libro all’anno!).
In questo contesto raffinato e colto non poteva che fiorire anche una scuola di
abili intagliatori del legno (ne abbiamo prove eccelse già nel '400) e di
provetti maestri liutai.
Dove è nato il violino, a Cremona con Amati o a Brescia con Zanetto Micheli da
Montichiari o Gasparo da Salò? O addirittura (ma quasi nessuno lo sostiene)
nella Germania meridionale o nei Paesi Bassi? La domanda è oziosa, a meno di
credere che un bel giorno, quasi dal nulla, un liutaio di genio abbia “inventato”
questo strumento straordinario. Ma la categoria dell’“invenzione” va usata
con grande cautela nello scrivere di storia. E’ molto più credibile un
accumulo, nel corso degli anni, di piccole o meno piccole trasformazioni fino a
quando davvero, uno o più, non sapremo mai chi, costruirà o costruiranno lo
strumento più o meno come lo conosciamo.
Dice giustamente Elena Ferrari Barassi: “ … un grande lavorio di
trasformazione per due secoli coinvolse la ribeca e la viella per convogliarle
verso il violino. Questo processo passò attraverso episodi oscuri e illustri in
Italia, nelle Fiandre, in Francia e in Germania, per trovare infine il suo
approdo a Brescia e a Cremona”. E’ difficile individuarne precisamente l’origine.
Tanto più che il termine “violino” (non a caso quasi sempre usato al
plurale) per lungo tempo indicò strumenti diversi dal violino odierno (il
violoncello ad esempio).
Ogni municipalismo è da bandire, quando studiamo la storia della cultura.
Se il padre del violino è il liuto, il nonno (o il bisnonno) è l’ud,
strumento portato dagli arabi in Spagna ed in Sicilia.
Ed è curioso e rilevante il fatto che la maggior diffusione della liuteria
coincida con la maggior presenza di ebrei sefarditi e di marrani fuggiti dalle
persecuzioni in Spagna e Portogallo agli inizi del '500.
Pensate: arabi, ebrei, e forse zingari, insieme ad intagliatori da generazioni
presenti in Italia. Se non è “meticciato” culturale questo!
Mettiamo da parte, quindi, quell’oziosa domanda.
Vorrei piuttosto suggerire, se posso permettermi, agli esperti di storia della
liuteria un terreno di ricerca finora non indagato. Magari per concludere che
non porta da alcuna parte. Oppure che invece favorisce nuove domande. Alludo ad
un filone più specificamente filosofico, o meglio, di storia delle idee.
Cercando di rispondere prima che al “dove” e “da chi” al “perché”
proprio in Italia si passò, adagio adagio, dagli strumenti medievali a quelli
rinascimentali ed al violino. Il “dove” forse seguirà e il “da chi”
probabilmente no, se non come moltitudine di bravi artigiani, di pochi dei quali
è rimasta memoria.
Non vorrei però essere frainteso.
Concordo con il Presidente del Comitato scientifico della mostra su “Andrea
Amati e la nascita del violino”, prof. Renato Meucci. Una visione “mistica”
e romantica della liuteria, come avevano nell’Ottocento ed anche nella prima
metà del '900 è assolutamente improponibile. La liuteria va inquadrata “nel
novero delle migliori arti applicate e dell’artigianato artistico …
piuttosto che in quello dell’arte pura, caratterizzata da intenti strettamente
estetici”.
Epperò i legami tra idee (cultura “alta”), elaborazione e diffusione delle
stesse, anche a livello di “opinione comune”, e produzione di oggetti sono
assolutamente certi, pur se difficili da districare.
Ed allora perché non indagare in questa direzione?
A condizionare fortemente la cultura italiana nel '400 e nel '500 fu il
neoplatonismo. L’aristotelismo rimase, confinato però nelle Università, e
riemerse poi fortissimo nella seconda metà del Cinquecento.
Un neoplatonismo dalle varie sfumature, ma quasi sempre frammischiato o
condizionato dall’ermetismo (da Ermete Trismegisto, fantomatico autore di
molti libri allora in circolazione, portavoce di una presunta saggezza egizia
antichissima) e da tentazioni magico-misteriche.
Marsilio Ficino, Pico della Mirandola ed altri, rielaborando le dottrine di
Pitagora, di Platone e dei Neoplatonici, considerano la musica terrena come
figura dell’armonia del cosmo. Secondo loro essa possiede virtù magiche e
terapeutiche, in quanto attiva gli influssi benigni degli astri e risana i corpi
rasserenando l’anima. La musica possiede, dice Ficino nel “De Vita”, una
forza mirabile per calmare, muovere ed influenzare l’animo e il corpo.
Intermediario potente tra mondo terrestre, mondo celeste e mondo sopraceleste,
è lo strumento musicale, in particolare il liuto e poi il violino, capace di
catalizzare gli influssi superiori e agire magicamente sul nostro spirito. Si
può dire che lo strumento ben costruito e la musica adatta divengono, in un
certo senso, potenti “talismani”.
E non è forse vero che nei dipinti rinascimentali la corda spezzata di un liuto
rappresenta la rottura dell’armonia universale, in genere (ma non sempre)
collegata con la morte di Gesù? Lo dice Andrea Alciati (1492-1550), autore di
un trattato (“Emblemata”) che ci aiuta a capire il significato iconologico
di molte opere d’arte.
E’ utile allora studiare la diffusione di questa cultura, da Firenze in varie
parti d’Italia.
Milano, la Milano degli Sforza, ne fu un centro importante. Meno le città
venete, specie dell’entroterra. Lo Stato di Milano, fino al momento della
conquista spagnola, quasi sempre in lotta con Venezia, fu invece il principale
alleato della Firenze medicea, anzi, in molte occasioni il “gran protettore”.
In una sua lettera, Lorenzo il Magnifico arrivò a dire che lui teneva il potere
a Firenze per conto del Duca di Milano. Ed i rapporti tra Cremona e Firenze,
mediati da Milano, erano di un certo peso. Ed anche ai tempi di cui parliamo,
potrebbe non essere inessenziale il fatto che Carlo IX, colui che commissionò i
famosi strumenti ad Andrea Amati, fosse figlio di Caterina de’ Medici.
Comunque sia, a conclusione di questa mia “orazione”, voglio ricordare
che oltre ad essere al centro del confluire di tante tradizioni diverse, la
musica non da sempre ma da molto è un messaggio universale (senza le barriere
delle diversità di lingue) e di pace. Lasciamo perdere il rullar dei tamburi
nelle battaglie o le canzoni di guerra. Bach, Mozart e tanti altri grandi oggi
sono messaggeri di pace e di emozioni positive. Così gli strumenti che vengono
usati (ed i musicisti che li suonano). Ed allora, lasciamoci trascinare dal
fascino di queste emozioni. Brescia e Cremona insieme, quale che sia il passato
e la difficoltà del momento, per affermare concetti e valori di gentilezza,
umanità e passione per il bello, di comprensione e tolleranza. Insieme, amiche,
aperte al mondo ed al contempo gelose delle proprie tradizioni, Cremona e
Brescia possono ancora svolgere un ruolo importante nell’Italia di domani.
Gian Carlo Corada - Sindaco di Cremona
 
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