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 Storia Cremonese

15 Settembre, 2002
Ponchielli Amilcare e il suo tempo
31 agosto1834, Paderno – 16 gennaio 1886, Milano

Amilcare Ponchielli e il suo tempo
31 agosto1834, Paderno – 16 gennaio 1886, Milano

Visse in due “epoche”, Ponchielli. Visse in un’epoca di transazione, di enormi cambiamenti e di conflitti politici; visse i tempi dell’entusiasmo risorgimentale e delle attese deluse; visse la nascita di una borghesia inconcludente e insensibile agli effetti sociali del capitalismo. Aveva sotto gli occhi la miseria contadina, contraltare di una bucolica “civiltà agreste”, quanto la nascita di una miseria “metropolitana”, suburbana, proletaria. Alle contraddizioni della società borghese, dell’industrializzazione, la risposta politica, sociale e culturale non tarda ad arrivare. La coscienza antiborghese avrà espressioni letterarie, artistiche di varia natura; a volte guardano indietro con nostalgia, altre volte aprono prospettive nuove, condivise dal nascente movimento operaio. Da un sentimento di impotenza dell’intellettuale a porsi “guida” nei cambiamenti sociali, non a caso proprio nelle città precocemente industrializzate e “disumanizzate” di Torino e Milano, nasce una tendenza principalmente letteraria con la quale Ponchielli entrerà presto in contatto.
Se il termine “bohemien” è entrato nell’uso comune con un significato largamente condiviso, “scapigliato” è relegato in un ambito “dotto”, almeno in riferimento alla sua accezione originale, descritta dal suo “inventore”, lo scrittore e giornalista Carlo Righetti, alias Cletto Arrighi. «La Scapigliatura è composta da individui di ogni ceto, di ogni condizione, di ogni grado possibile della scala sociale. Proletariato, medio ceto e aristocrazia; foro, letteratura, arte e commercio; celibato e matrimonio, ciascuno vi porta il suo contingente, ciascuno vi conta qualche membro d’ambo i sessi; ed essa li accoglie tutti in un complesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza simpatica nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze consimili. La speranza è la religione degli scapigliati, che i contemporanei italiani si ostinano a chiamare i boemi, con orribile gallicismo; la fierezza è la loro divisa; la povertà il loro carattere essenziale. Ma non la povertà del pitocco, che stende la mano all’elemosina, bensì la povertà di un duca a cui tocca di licenziare una dozzina di servitori, vendere molte coppie di cavalli e ridurre a quattro le portate della sua tavola, perché, fatti i conti coll’intendente, ha trovato di non avere più a questo mondo [...] che cinquantamila lire di rendita.» (1862)
Insomma: fine del sacro ardore risorgimentale, del romanticismo patriottico, della fiducia nella tradizione borghese. Insoddisfazione, sconforto, terrore del provincialismo. Manzoni è il passato. Verdi è il passato. Si guarda verso “l’occidente” come se il sole dovesse spuntare da quella parte.
Il punto di contatto del musicista Ponchielli con la tendenza della “scapigliatura” è rappresentato da amici scrittori – librettisti come Arrigo Boito (che scriverà ma firmerà con pseudonimo il libretto di Gioconda). I nuovi “mecenati” sono le case editrici (quella di Ponchielli è la Ricordi) che perseguono, insieme a principi di mercato, anche precise linee che possono essere definite di “politica culturale”. I teatri sono promotori del “divertimento” borghese, “operatori” di un mercato culturale in un epoca che vide il furore e il tramonto del melodramma dell’800 italiano.


C’è chi sostiene che a far avere un posto al Regio Conservatorio di Milano al giovanissimo Ponchielli sarebbe stato il marchese Jacini, grande estimatore delle sue doti. C’è chi parla di un difficile esame di ammissione superato. Ad ogni modo, può ben definirsi un inizio carriera brillante quello che vide il figlio di un modesto bottegaio di paese, all’età di nove anni, ad essere ammesso in un tale prestigioso consesso.
Padre bottegaio ma anche musicista che fa da primo maestro al figlio, iniziato alla musica sui tasti di un vecchio organo nella chiesa di S. Dalmazio. Sarà parso anche al padre un ragazzo promettente se lo affida presto ad un vero maestro, nella persona dell’organista Francesco Gorno di Casalbuttano. Poi, nel 1854, il diploma al Conservatorio. Ma, per il momento, gli toccherà abbandonare la grande città.
È organista nella chiesa di S. Imerio, a Cremona, sostituto maestro nel Teatro Concordia (Ruggero Manna ne è “concertatore stabile”), e se può dedicarsi anche alla composizione (al di là dell’incarico datogli dal Manna per alcuni brani de La Vergine di Kermo) lo deve non ad una istituzione musicale ma al “mecenatismo artigianale”: è il sellaio Bortolo Piatti a finanziarlo. Le prime opere non riscuotono il desiderato successo; consolazione non è ma garantisce un reddito la direzione delle bande musicali di Cremona e di Piacenza. A nulla gli valse essere primo in graduatoria per la cattedra di contrappunto al Conservatorio di Milano, il posto sarà assegnato, nel 1865, ad un altro. Ed ha già – o ha soltanto – trentun anni.
L’anno del primo vero successo è il 1872: una versione completamente riveduta de “I promessi sposi” trionfa al Teatro Dal Verme di Milano. La casa editrice Ricordi gli commissiona un’opera: sarà un altro successo, questa volta al Teatro della Scala, “I Lituani”. E Ponchielli sposa l’interprete di questa opera, Teresa Brambilla.
Così, sulla quarantina, Ponchielli è un autore avviato al successo mondiale, musicista riconosciuto negli ambienti “accademici”; ottiene la cattedra al Conservatorio (avrà tra gli allievi i grandi di un prossimo futuro, Giacomo Puccini e Pietro Mascagni) ed è maestro di cappella della Chiesa di S. Maria Maggiore a Bergamo. È l’erede della scena a lungo dominata dal genio che fu Giuseppe Verdi.
Tanto successo ottenuto grazie al talento, alla capacità di inserirsi nella migliore corrente europea di rinnovamento musicale e anche alla tenacia, alla costanza piuttosto che ai colpi di fortuna. Tenacia nella ricerca dell’espressione perfetta; opere incominciate e lasciate a lungo in sospeso, opere riscritte, meticolosamente perfezionate. Perfezionismo e forse qualche insicurezza. L’appagamento del successo insieme al peso della responsabilità. E Ponchielli, grande talento ma anche buon “artigiano”, a lungo perfeziona le sue opere le quali, nell’ultimo periodo, incontrano immancabilmente il favore del pubblico e quasi sempre anche quello della critica. Viene applaudito il suo “bel canto” nel solco della tradizione operistica italiana quanto il suo innovativo estro compositivo orchestrale.
Era una morte davvero prematura, la sua, a soli 51 anni. Una broncopolmonite lo costringe ad abbandonare l’allestimento de La Gioconda nel teatro di Piacenza. Torna a Milano per guarire ma la sua tenacia, in questa battaglia, non è sufficiente. Si spegne il 16 gennaio 1886.



Opere

È davvero significativo il fatto che Amilcare Ponchielli avesse scelto il testo – nel tempo divenuto “sacro” – de I promessi sposi di Manzoni per la prima sua opera (1856). Ma insieme ad altre due a seguire (La Savoiarda, 1861 e Roderico, Re dei Goti, 1863) viene accolta senza grande entusiasmo. Temi (o libretti) “sbagliati”? Ponchielli però deve credere molto nella sua intuizione se dopo più di dieci anni riprende in mano la sua prima opera e, rivisto il libretto dallo “scapigliato” Emilio Praga (1839-1875), la ripropone al Teatro Dal Verme di Milano. Ed è un grande successo.
I Lituani viene composto su commissione della Casa Ricordi. Curiosamente – ma forse altrettanto comprensibilmente – questo appoggio così prestigioso sembra non facilitare il lavoro ma a caricare l’autore di un peso assai sentito delle aspettative nei suoi confronti. Mentre procede lentamente con I Lituani, scrive anche la musica del balletto Le due gemelle e a Lecco, nel 1873, viene rappresentato lo scherzo comico in un atto Il Parlatore Eterno. Quando finalmente I Lituani arriva sulle scene della Scala (1874), a Ponchielli viene tributato un applauso unanime. Eppure, anche questa opera sarà ripresa successivamente con un altro titolo (Aldona), come è capitato a La Savoiarda (Lina, Milano 1877).
Il 1876 è l’anno de La Gioconda che ha per librettista un altro “scapigliato”, Arrigo Boito (il quale firma però con lo pseudonimo Tobia Gorrio). E il nome di Ponchielli si legherà indissolubilmente alla danza attraverso un brano dell’opera – diventato più famoso dell’opera stessa – noto con il titolo La danza delle ore.
E anche La Gioconda, nonostante il successo di pubblico e di critica, vedrà una seconda versione, nel 1880. Pare evidente la difficoltà di Ponchielli a considerare definitiva una partitura; tutto è migliorabile, tutto è sempre lontano dalla perfezione. Alcune opere non porterà mai alla presentazione, Il sindaco Babbeo è addirittura materialmente perduta, Bertrando de Bornio (1858) e Olga restano incomplete per scelta; I Mori di Valenza sarà completata da Arturo Cadore ma questa volta colpevole fu la morte dell’autore.
Nel 1880 viene rappresentate l’opera Il figliuol prodigo, nel 1885 Marion Delorme, riscotendo entrambi grande successo di pubblico. La critica invece accoglie Marion Delorme con una certa freddezza; Ponchielli la ripropone, al Teatro Grande di Brescia, in una versione riveduta.
Il mondo del melodramma – pubblico, critica, direzioni teatrali – fu pronto presto a tributare grandi riconoscimenti a Ponchielli “compositore d’Italia”, come fu sollecito ad accogliere i nuovi, accantonando il nostro. Ma molte sue opere resistono alle ondate delle mode e, particolarmente oggi, una attenzione più “raffinata” sta riportando alla luce quello che nell’opera di Ponchielli è di immortale valore.

cremona 25-2-06

 


       



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