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15 Settembre, 2002
Moro, ingiustizia ripara ingiustizia ( di Antonio V. Gelormini)
E’ una sorta di pellegrinaggio laico quello che compio, ogni volta che mi capita di tornare a Roma, recandomi anche solo per pochi momenti in via Caetani.

E’ una sorta di pellegrinaggio laico quello che compio, ogni volta che mi capita di tornare a Roma, recandomi anche solo per pochi momenti in via Caetani. Davanti alla lapide che ricorda la tragedia umana di un grande statista: “Cinquantaquattro giorni dopo il suo barbaro rapimento, venne ritrovato in questo luogo, la mattina del 9 maggio 1978, il corpo crivellato di proiettili di Aldo Moro. Il suo sacrificio freddamente voluto con disumana ferocia, da chi tentava inutilmente d’impedire l’attuazione di un programma coraggioso e lungimirante a beneficio dell’intero popolo italiano, resterà quale monito e insegnamento a tutti i cittadini per un rinnovato impegno di unità nazionale nella giustizia, nella pace, nel progresso sociale”.

E’ l’omaggio spontaneo, con un viaggio nella memoria che si ripete ogni volta davanti a quella lapide, a chi un giorno entrò con dolcezza e senza saperlo nel percorso formativo di un ragazzino di paese. Ponendo riparo col sorriso, la calma e la forza del progetto politico ad un’ingiustizia, che ne aveva segnato l’intera adolescenza.

Flash back al 2 maggio del 1967 nell’aula di quinta elementare dell’Istituto di Suore della Carità di Troia, un piccolo centro della Daunia, in Puglia. Quella mattina Raffaele, uno dei nostri “compagni di classe” (che bizzarra è la vita, se penso alla terminologia), venne punito, rimanendo fuori e in piedi fino al nostro rientro a casa, per aver partecipato il giorno prima, insieme a suo padre, alla sfilata del 1 maggio. Una punizione incomprensibile. Uno strappo che segnò le nostre coscienze e che accese inquietanti interrogativi: Raffaele veniva punito per aver seguito suo padre. Incredibile. Ancor più per me, che facevo il chierichetto e vedevo quella famiglia di “comunisti” ogni domenica a Messa fare anche la Comunione.

Quella mattina del 16 marzo 1978 Aldo Moro in Parlamento avrebbe sancito il riparo a un’antica ingiustizia. Il suo era stato un lavoro tenace e paziente, per poter convincere molti cattolici (non tutti) ad accogliere i comunisti nella maggioranza. Lo dettava il senso di responsabilità verso il Paese. Lo suggeriva proprio l’ispirazione cristiana, che imponeva di anteporre il bene comune all’affermazione di ogni identità di parte.

La riparazione venne interrotta violentemente da un’improvvisa frenata, a cui seguì una micidiale raffica di mitra, che lasciò a terra all’incrocio di via Fani le vite innocenti di cinque servitori dello Stato. L’impotenza, la paura e poi il terrore presero il sopravvento e per 55 giorni tennero il mondo sul filo di un’inutile speranza. Fino al dolore, all’amarezza e al dramma del corpo giustiziato e abbandonato in una Renault rossa in via Caetani. L’ingiustizia aveva trovato riparo in un’ingiustizia ancora più grande.

Ero convinto che ce l’avrebbe fatta. Nessuno aveva il diritto di spegnere quel sorriso rassicurante, che aveva calmato i miei timori di bambino con la sua stessa ciocca di capelli bianchi, messogli in braccio, in una singolare forma di omaggio, durante uno dei tanti tour elettorali nei paesi di provincia. Il sorriso e la carezza confortante avevano fatto di quel segno di diversità un elemento di uguaglianza. Anzi, un vero e proprio motivo di orgoglio: avevo il ciuffo bianco come Aldo Moro. E lui lo sapeva.

Anche per questo continuerò ad andare a pregare davanti a quella lapide. E chiederò ai miei figli, Eduardo e Benedetta, di farlo con me e dopo di me, e di insegnare a farlo anche ai figli dei loro figli. Affinché la forza del ricordo e dolcezza di quel sorriso alimentino a lungo la fiamma dei giusti.

gelormini@katamail.com

 


       



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