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15 Settembre, 2002
Salari, utili e produttività (di P. Garibaldi e F. Panunzi)
Torna in auge la partecipazione agli utili. Mentre per i manager una retribuzione collegata agli utili appare ragionevole, per i lavoratori di livello inferiore....

Torna in auge la partecipazione agli utili. Mentre per i manager una retribuzione collegata agli utili appare ragionevole, per i lavoratori di livello inferiore è molto meglio legarla alla produttività o a variabili che dipendono direttamente dal loro comportamento sul lavoro. In estate si è cominciato a parlare seriamente di decentramento contrattuale e di legame tra salario e produttività, con importanti aperture di tutti i sindacati. Ora la proposta governativa di partecipazione agli utili rischia di creare solo confusione.

Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha recentemente proposto di far partecipare i lavoratori agli utili dell’impresa. Il collega del Welfare, Maurizio Sacconi, è apparso entusiasta e ha subito annunciato che l’idea di Tremonti è “una grande proposta che sarà legge entro l’anno. [Si tratta] di far partecipare i lavoratori agli utili, non alla gestione”.

Ovviamente, dovremo attendere i dettagli della proposta di legge per capire esattamente che cosa hanno in mente i due ministri e, in particolare, quali strumenti verranno proposti per far partecipare i lavoratori agli utili ma non alla gestione, scelta che esclude la distribuzione di azioni con diritti di voto ai lavoratori. Tuttavia, riteniamo opportuno fare qualche considerazione preliminare. Innanzitutto, dobbiamo capire se una retribuzione legata agli utili sia una buona idea, indipendentemente da eventuali incentivi fiscali che il progetto di legge vorrà mettere in atto. In secondo luogo, si deve riflettere su quale ruolo il Governo e una legge dello Stato possono svolgere.

L’AVVERSIONE AL RISCHIO E GLI STIPENDI DEI LAVORATORI

Oggi in Italia non vi è alcun divieto a che i lavoratori partecipino agli utili aziendali. Sindacati e Confindustria potrebbero quindi già farlo, senza alcun bisogno di un’apposita legge. In realtà, osservando la remunerazioni delle più importanti aziende italiane, ci accorgiamo come i dirigenti di alto livello (i cosiddetti dirigenti apicali) nel settore privato hanno quasi sempre una compensazione legata agli utili dell’impresa. Legare la remunerazione di un dirigente all’utile è infatti un modo per aumentare gli incentivi del dirigente stesso a generare più profitti. Perché allora imprese e sindacati hanno finora contrattato schemi di remunerazione dei lavoratori senza una partecipazione agli utili?

Per capirlo, dobbiamo chiederci qual è lo svantaggio di una simile scelta. La risposta è che quasi tutti i lavoratori, manager compresi, sono avversi al rischio e se potessero scegliere preferirebbero sempre una retribuzione di un ammontare fisso rispetto a una retribuzione che, a parità di livello medio, può essere alta o bassa. In altre parole, un lavoratore avverso al rischio preferisce una retribuzione certa di 1.500 euro rispetto a una retribuzione che può essere di zero o 3mila euro con una probabilità del 50 per cento.

Essendo gli utili delle imprese una variabile inevitabilmente soggetta ad ampie oscillazioni, un legame automatico salario-profitti finirebbe per rendere proporzionalmente variabili e incerti i salari dei lavoratori. È proprio questa incertezza sul salario a risultare sgradita ai lavoratori ed è questa una delle ragioni per le quali alcuni sindacati si sono rivelati storicamente contrari a un legame tra profitti e salari.

UNA CERTA VARIABILITÀ È PERÒ INEVITABILE

L’avversione al rischio non implica però che un salario certo sia il modo ottimale per compensare i lavoratori. Il problema di un salario fisso è che il lavoratore, certo di una retribuzione indipendente dai risultati, finisce per non avere incentivi a migliorare le proprie prestazioni. La mancanza di incentivi va ovviamente a discapito del datore di lavoro. La soluzione ottimale sarebbe quindi quella di legare la compensazione dei lavoratori a variabili sulle quali i lavoratori stessi hanno un impatto diretto. Ad esempio, i lavoratori di una catena di montaggio, attraverso la loro costante attenzione, influenzano in modo cruciale la percentuale prodotta di pezzi difettosi.

PRODUTTIVITÀ PIÙ CHE I PROFITTI

Èpertanto auspicabile legare la compensazione dei lavoratori alle variabili che misurano, seppure in modo imperfetto, la loro produttività. Per i top manager i profitti non si discostano troppo dalla loro produttività, anche perché dalle loro scelte strategiche dipende la produttività di tutta l’azienda. La maggior parte dei lavoratori non apicali, invece, non può incidere in alcun modo sulla gestione finanziaria, sul costo delle materie prime, sulle operazioni straordinarie e su altre variabili che determinano il livello degli utili. Non è quindi ottimale, in termini generali, legare la loro remunerazione ai profitti.

IL RUOLO E LA CONFUSIONE DEL GOVERNO

L’Italia ha un grande bisogno di legare i salari alla produttività. Il decentramento della contrattazione sarebbe un modo per facilitarne il legame, come sostenuto più volte su questo sito da Tito Boeri e uno di noi due. Inoltre, nelle settimane passate ci sono state importanti aperture su questo tema anche da parte della Cgil. Ovviamente, anche per quanto riguarda il legame tra salario e produttività, la parte più importante della riforma spetta alle parti sociali e il governo può solo intervenire, con strumenti fiscali, per facilitare il processo. Ma sarebbe sbagliato concedere sgravi fiscali solo alle imprese che adotteranno una politica di remunerazione dei lavoratori legata ai profitti, come sembra annunciare il ministro Sacconi. Politica che, tra l’altro, introdurrebbe una ulteriore asimmetria tra settore provato e settore pubblico, dove non è possibile legare la remunerazione ai profitti. La discussione sulla detassazione dei salari legati agli utili rischia soltanto di creare confusione e distorcere l’attenzione da una necessità strutturale molto più importante, quella del decentramento della contrattazione e del legame salari e produttività. In altre parole, rischia di essere un’altra occasione sprecata per l’Italia.

 


       CommentoFonte La Voce



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