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15 Settembre, 2002
Recensione del libro “Primo Mazzolari. Scritti sulla pace e sulla guerra”
Edizione critica a cura di Guido Formigoni e Massimo De Giuseppe. EDB,2009.

Recensione del libro “Primo Mazzolari. Scritti sulla pace e sulla guerra”
Edizione critica a cura di Guido Formigoni e Massimo De Giuseppe. EDB,2009.
Come anticipo dell'incontro di venerdì' sera su Mazzolari e la sua critica radicale alla teoria della " guerra giusta", vi allego la recensione del libro scritta da Mario Gnocchi e uno dei tantissimi articoli scritti sulla rivista "Adesso" da Mazzolari, per apprezzarne la chiarezza, la forza ideale, il non conformismo. Leggete " il malanno nazionalista" e pensate ai fatti di Rosarno, a come ormai leggiamo l'altro, lo straniero, l'immigrato .
Marco Pezzoni.
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Il malanno nazionalista
( Adesso, 15 ottobre 1955)
“Il senso dell’umana solidarietà e della cristiana fraternità, il solo che possa frenare gli egoismi nazionali, razziali…ha raggiunto con fatica il linguaggio dei diplomatici e l’aspirazione degli umili, ma tanto nei primi come nei secondi è rimasto in agguato il verme del particolarismo, che passa sotto il nome di “ onore nazionale”.
Finchè all’ONU si fa dell’accademia oppure si trattano i problemi degli assenti o degli ultimi, la bonaccia dura: appena si prende nota o si affaccia all’ordine del giorno un problema concreto di questo o quel membro influente, l’orgoglio nazionale insorge violentemente con tali colpi di scena che ci lasciano assai perplessi sul destino del mondo.
L’Algeria e il resto dell’Africa francese sono guai e problemi della Francia, ma siccome le reazioni, giuste o meno, del mondo arabo-musulmano, possono mettere in pericolo la pace del mondo, l’ONU che ha cura di essa, non può star a guardare con le mani in tasca.
Ascoltare un parere anche se non richiesto, ragionare insieme…non è un attentato alla dignità e all’onore nazionale. L’orgoglio e l’onore mal inteso hanno sempre dato fuoco alle polveriere.

Bisogna dire che noi occidentali ce l’abbiamo nel sangue il malanno nazionalistico, che storia, leggenda, letteratura portano a un livello eroico, che incanta persino gli uomini di religione.

Nessuno vuole la guerra, non tutti però vogliono o riescono a liberarsi dell’uomo vecchio, che macina la guerra al mulino nazionalistico, che maschera gli egoismi e gli interessi più sporchi.

Noi ci sentiamo italiani, all’Italia noi vogliamo bene: ma la Patria non è un idolo per noi, e neanche il primo dei beni, né sta al di sopra della Pace, molto meno contro la Pace.
Gli italiani sono uomini, ma pure il mondo è abitato, ovunque da uomini: gli italiani sono nostri fratelli, ma pur gli altri uomini, ovunque stiano e comunque parlino e preghino, sono nostri fratelli: un po’ più lontani ma ugualmente figli del Padre che abbiamo nei cieli, e nostro prossimo anch’essi.

Per un vacuo orgoglio, per soddisfare un puntiglio o uno sdegno, per ritorcere un affronto vero o immaginario, per una gloria che nei secoli gronda sangue da ogni parte, nessuno ha il diritto di spezzare la solidarietà umana e la cristiana fraternità.

Ogni applauso a simili gesti, è un applauso alla guerra.
Anche a costo di apparire “disfattisti”, noi rimaniamo ostinatamente alla opposizione di fronte a questo patriottismo di bassa lega: su questo mercato delle vecchie vanità diplomatiche e militari non abbiamo nessun baratto da fare. Noi ci teniamo la nostra ostinazione, la pace, che vale più di ogni decorazione.”

Primo Mazzolari
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Mario Gnocchi
Recensione del libro “Primo Mazzolari. Scritti sulla pace e sulla guerra”
Edizione critica a cura di Guido Formigoni e Massimo De Giuseppe. EDB,2009.
Questo articolo è apparso sull’ultimo numero della rivista “ IMPEGNO”.


Anche chi ha una conoscenza sommaria di don Primo Mazzolari sa che uno dei temi dominanti nella sua opera è quello della pace: Tu non uccidere, il breve ma vibrante e ardito testo apparso anonimo nel 1955, riedito nel 1957 e poi più volte ripubblicato (e qui riproposto nell’edizione originaria e nelle integrazioni della seconda), è certamente tra i suoi scritti ancor oggi più noti. Meno noto, forse, almeno nelle sue tappe progressive e nelle sue circostanziate espressioni, è il lungo e sofferto percorso di vita, di pensiero e di testimonianza che ha condotto il prete cremonese a battersi sulla frontiera di un radicale pacifismo cristiano, attraverso la responsabile e travagliata partecipazione a oltre quattro decenni di drammatiche vicende storiche.
Di questo percorso ci offrono ora una rigorosa documentazione gli Scritti sulla pace e sulla guerra raccolti, in edizione critica, in un corposo volume pubblicato dalle Edizioni Dehoniane di Bologna a cura di Guido Formigoni e Massimo De Giuseppe, autori anche di un’ampia introduzione generale e di una serie di note che mettono in luce il contesto politico e culturale in cui vanno collocati i singoli testi, le occasioni da cui presero spunto e le ripercussioni che ne seguirono, le affinità tematiche con altre pagine di don Primo e le vicende della sua vita che a quei testi sono strettamente connesse

Gli scritti raccolti nel volume sono per lo più articoli apparsi in vari fogli periodici, e soprattutto (oltre la metà) su Adesso, ma non mancano discorsi, omelie e riflessioni diaristiche; e abbracciano, come si è detto, l’arco di quarantacinque anni, dal 1914 al 1959. Cioè l’intero arco della vita adulta di don Primo, dallo scoppio della prima guerra mondiale, che lo colse ventiquattrenne agli inizi del suo ministero pastorale, sino alla vigilia della morte. La loro sequenza s’infittisce e si fa incalzante negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, quando appunto l’impegno di don Primo per la pace – la sua «ostinazione», come allora scriveva – giunge al suo culmine nelle pagine di Adesso e negli scritti coevi.
Ma a quell’approdo finale del suo itinerario intellettuale e spirituale Mazzolari era arrivato partendo da posizioni che, pur non potendosi definire del tutto opposte, erano certamente ben diverse: cioè dal convinto interventismo espresso allo scoppio della «grande guerra» e dalla passione ideale con cui aveva partecipato a quel conflitto. Interventismo radicato in un ideale patriottico di ispirazione risorgimentale, che don Primo aveva assorbito nella sua formazione giovanile sotto l’influsso del vescovo Geremia Bonomelli, e di cui rimarrà sempre, seppur corretta e riequilibrata, un’impronta nel suo animo. Ma proprio questa radice risorgimentale e più propriamente mazziniana (Mazzini, «una delle anime più belle uscite dalle mani di Dio», è più volte menzionato e citato negli scritti di quegli anni) immunizza il patriottismo del giovane Mazzolari da ogni degenerazione nazionalistica e imperialistica; e il suo interventismo – in sintonia con quello degli amici cristiano-democratici dell’Azione, la rivista su cui egli stesso pubblica diversi articoli – rifugge da ogni esaltazione militaristica, vitalistica o estetizzante della guerra. La guerra, egli dice, può essere necessaria – e necessaria egli crede quella combattuta dall’Italia contro gli imperi centrali – per una causa di giustizia, di libertà, di restaurazione dei diritti oppressi dei popoli, condizioni senza le quali non può esister vera pace; ma è pur sempre una «brutta necessità», una «terribile realtà». L’amore cristiano di cui essa è in sé negazione riemerge nella comunione del sacrificio, e attraverso questa tremenda prova può avvenire una purificazione e rigenerazione spirituale di un popolo, di una nazione; ma ciò non cancella l’«orrore» delle stragi e delle distruzioni che essa comporta.

Pur entro tale quadro e con questi temperamenti (o addirittura con qualche avvisaglia di una «tempesta del dubbio» di impronta mazziniana) il pensiero di don Primo, e il suo impegno personale negli anni del conflitto, rimangono sorretti dalla speranza che nella guerra l’Italia risponda a un dovere (se non addirittura ad una «missione») di giustizia non solo per sé, ma per la «grande famiglia degli uomini».
Questa visione ideale comincia a incrinarsi già negli anni dell’immediato dopoguerra, quando in luogo dell’attesa pacificazione degli animi e dei popoli don Primo registra il riproporsi, a livello nazionale e internazionale, di interessi egoistici che fomentano odi, divisioni e spirito di rivalsa, e la speranza di una rigenerazione morale cede di fronte all’involgarimento, all’indurimento dei cuori e allo spirito di violenza che la guerra ha lasciato come proprio strascico. È il tradimento del sacrificio dei poveri, che della guerra hanno pagato come sempre il più alto prezzo, e la profanazione della sacra memoria dei morti.

Questa amara riflessione prosegue e si accentua naturalmente negli anni dell’avvento e dell’affermazione del fascismo, con la sua esaltazione nazionalistica, il suo culto della forza e il suo militarismo, e induce Mazzolari a una revisione critica del proprio interventismo giovanile, pubblicamente espressa in un articolo del 1928. Ora il giudizio sulla guerra – anche sulla scia dei pronunciamenti pontifici, e in particolare di Benedetto XV – si fa più netto e insistente: la guerra è un male da cui, secondo la tradizionale preghiera della Chiesa, chiediamo che il Signore ci liberi come dalla pestilenza e dalla fame, e che il cristiano deve combattere in radice, nell’ingiustizia del mondo e nel peccato degli uomini di cui essa è il tragico frutto. Anche la tradizionale distinzione tra guerra giusta e ingiusta, pur mantenuta in linea teorica, si rivela problematica quando si passa dal piano astratto a quello delle situazioni concrete. E tuttavia, proprio poiché la guerra nasce dall’iniquità e dal peccato del mondo da cui il cristiano non può astrarsi né ritenersi immune, e in questa storica condizione egli è chiamato a incarnare la propria fede, don Primo ritiene ancora che non ci si possa sottrarre a una partecipazione che sia ad un tempo «espiazione» di quell’ingiustizia e solidarietà con la sofferenza e il sacrificio di chi vi è coinvolto. In questo senso l’adempimento leale del proprio dovere verso la patria mantiene per lui un valore: è un modo di «vivere cristianamente quella cosa così poco cristiana che è la guerra».

In tale prospettiva egli riesce a concepire anche la partecipazione alla guerra d’Africa, a proposito della quale mostra persino di prestare qualche ascolto alla campagna d’opinione che la presenta come inevitabile reazione dell’Italia all’ingiusto trattamento inflittole dagli «epuloni» d’Europa e affermazione del «diritto di vivere» di un «popolo affamato».
Ma che si tratti di un tema che inquieta profondamente il suo animo è provato dall’insistenza con cui torna a dibatterlo in occasioni e momenti diversi, non di rado riproponendo testualmente alcune argomentazioni dall’uno all’altro testo. E via via che procede nella riflessione, sotto l’incalzare di sempre più drammatici eventi storici (il crescente affermarsi di regimi totalitari, la guerra civile di Spagna, l’aggressiva politica nazista, la crisi di Monaco, e infine lo scoppio del secondo conflitto mondiale), il suo discorso si fa sempre più problematico e interrogativo, e la conciliazione tra l’iniquità della guerra e la possibilità di vivere anche in essa la carità cristiana gli appare sempre più difficile. Il cristiano, egli dice, è sempre disposto a morire, ma non a dare la morte. Al principio dell’autorità, dell’obbedienza e del dovere (che, assolutizzato, diventa «mito» e «idolatria») ora si contrappone quello della coscienza (o, esplicitamente, dell’«obbiezione di coscienza»), e si prospetta chiaramente la possibilità, anzi la doverosità in certe situazioni, di «disobbedire all’uomo per rimanere fedeli a Dio», accettando di pagare il prezzo della propria ribellione.

Uno dei momenti critici (nel senso proprio e pieno del termine: cioè momenti di ripensamento e giudizio) è certamente rappresentato, in questo senso, dalla nota Risposta ad un aviatore del 1941, che non giunge a una soluzione definitiva del problema, ma proprio in questo suo rimanere problematicamente aperta pone già le premesse per i più radicali sviluppi ulteriori.
Sviluppi che maturano attraverso la terribile esperienza della guerra e l’amaro turbamento del dopoguerra, quando ancora una volta, e più acutamente che in passato, don Primo registra che alla tregua delle armi (precaria e parziale anch’essa, per la continua riaccensione di conflitti regionali, dall’Indocina alla Corea e all’Algeria) non corrisponde un’estirpazioni delle radici da cui le guerre traggono alimento. Sul piano interno la speranza resistenziale di una risurrezione della patria in spirito di concordia e di unità sembra naufragare nella «spirale degli odi e delle vendette», nelle intolleranze ideologiche e nella radicalizzazione degli schieramenti politici contrapposti; su quello internazionale si incupisce la guerra fredda e incombe la spaventosa minaccia atomica: è questo il quadro angoscioso in cui Mazzolari sente e proclama l’urgenza di una rinnovata, radicale, rivoluzionaria testimonianza cristiana. Che comporta un rifiuto totale delle armi, per qualsiasi causa e in qualsiasi frangente. È una svolta decisiva, che imprime nuova direzione e nuovo impulso all’impegno mazzolariano dell’ultimo decennio. Ora, scrive don Primo, «per noi cadono tutte le distinzioni tra guerre giuste e ingiuste, difensive preventive, reazionarie o rivoluzionarie»; cade ogni pretesa di giustificare la reazione armata all’aggressione altrui, perché «ogni guerra è fratricida, oltraggio a Dio e all’uomo», e da quel male non può nascere alcun bene, ma solo altro male. Non c’è che un modo di rispondere alla violenza e di ristabilire la giustizia, non c’è che una via per giungere alla pace: l’evangelica scelta della nonviolenza. Che non è passiva acquiescenza all’aggressione e all’oppressione, ma resistenza che le contrasta e le vince proprio perché si rifiuta di assumerne gli strumenti: «per superare il lupo non posso farmi lupo»; «vince chi si lascia uccidere, non chi uccide».

Su questa linea si svolge l’indefessa battaglia mazzolariana per la pace sulle pagine di Adesso o comunque negli anni di pubblicazione della rivista. Una battaglia condotta, nella sua fase più accesa, in dialettico rapporto con il movimento filocomunista dei «partigiani della pace», di cui don Primo valuta criticamente le premesse ideologiche e politiche, ma con cui non rifiuta il confronto, riconoscendo in esso la capacità di dar voce a un’istanza di cui i cristiani per primi avrebbero dovuto farsi interpreti. Non per accorgimento tattico, ma per esigenza di fede e radicalità evangelica. Quell’esigenza e quella radicalità che inducono Mazzolari ad affrancarsi da ogni schieramento pregiudiziale, da ogni ragion di blocco o di partito, per esprimere liberamente il proprio giudizio nei confronti dell’uno e dell’altro fronte, esponendosi senza timore anche alle accuse e alle diffidenze che dall’uno e dall’altro gli vengono rivolte.
Innanzi all’ambiguità, alla riserva ideologica che, dice don Primo, impedisce a entrambi gli schieramenti – quello orientale e quello occidentale, quello comunista e quello anticomunista – di esprimere una vera condanna della guerra, ammessa dagli uni come strumento di affermazione rivoluzionaria, dagli altri come difesa contro la minaccia comunista, solo l’inerme forza della resistenza non violenta, che per il cristiano ha radice nell’Evangelo di Cristo, può immettere un seme di pace nella storia.

È in questa temperie e da questa battaglia che nasce Tu non uccidere, il libro in cui confluisce ed è condensato, talora con testuali trapianti, ciò che don Primo ha meditato ed elaborato nel quinquennio 1950-1955 (e poi nei due anni che portano alla seconda edizione del 1957). Ed è nelle pagine di questo libro che idealmente si conclude il quarantennale itinerario della riflessione e dell’impegno pubblico di don Primo sulla pace e sulla guerra. Si conclude idealmente, ma di fatto non si interrompe, perché su questo tema la sua voce continuerà a levarsi fino alla morte, anzi oltre la morte stessa: l’ultimo suo articolo sull’argomento apparirà infatti su Adesso il 15 aprile 1959, tre giorni dopo il suo decesso.
Nel corso di quell’itinerario, come abbiamo visto, è avvenuta una sensibile evoluzione di idee e di orientamenti; nella costanza, tuttavia, delle note profonde dell’animo e del cuore di Primo. Tale costanza emerge anche nella ricorrenza di alcuni suoi tipici leitmotiven, di alcune «figure» privilegiate del suo pensiero e della sua sensibilità: i poveri, nella loro sofferenza e nella genuinità dei loro sentimenti umani e cristiani; i morti (anzi, come don Primo scrive, i Morti, con la lettera maiuscola) e la sacertà della loro memoria e della loro consegna; la dignità e l’intelligenza spirituale dei semplici e degli umili; la santità degli affetti familiari e, in essi, la centralità della figura materna; e altri ancora, in parte già implicitamente accennati. Costante, soprattutto, è la duplice tensione spirituale che anima ogni discorso mazzolariano, tra la verità eterna della «Parola che non passa» e la necessità di una sua continua incarnazione nelle contingenze della storia: una tensione vissuta sempre con passione, non di rado con quel sentimento «agonico» che è un’altra modulazione caratteristica della parola di don Primo.
Attingendo a una copiosa ma anche sparsa messe di scritti, qui disposti in rigoroso ordine cronologico, i curatori del volume hanno saputo formarne quasi un discorso continuo, in cui si riflette (anche grazie alle note che li corredano) la storia personale di don Primo sullo sfondo della storia italiana e mondiale di quei decenni. La lettura diventa perciò l’occasione, oltre che per un rinnovato incontro con la personalità mazzolariana, per una larga ricognizione delle vicende di un recente passato, di cui non si sono spenti gli echi né esaurite le istanze, le tensioni e le attese.

 


       



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