15 Settembre, 2002
CHIEDIAMO LA FEDERAZIONE EUROPEA
DALL’UNIONE MONETARIA ALL’UNIONE FEDERALE EUROPEA
CHIEDIAMO LA FEDERAZIONE EUROPEA
DALL’UNIONE MONETARIA ALL’UNIONE FEDERALE
EUROPEA
La pace nell’era della globalizzazione
Tutti vogliono la pace, ma all’atto pratico
la politica, anche quando si esprime ai massimi
livelli di responsabilità di governo, non
è in grado di individuare una prospettiva
di azione che porti all’abolizione della
guerra. A questa contraddizione non è sfuggito
neppure il Presidente degli Stati Uniti d’America
Barack Obama: nel ricevere il premio Nobel
per la pace del 2009 egli si è sentito in
dovere di pronunciare un discorso con il
quale, in definitiva, ha giustificato il
ricorso alle armi da parte del governo americano.
Già in apertura, per evitare malintesi sul
significato dell’accettazione del premio,
il Presidente Obama ha voluto ricordare di
parlare anche in qualità di Comandante in
Capo di un esercito che sta combattendo due
guerre.
Per molti americani, queste parole non sono
certamente giunte inaspettate. Infatti a
Oslo il Presidente degli Stati Uniti ha ribadito
per una platea mondiale quanto aveva già
affermato a Chicago nel 2002 nel corso di
una manifestazione contro la guerra in Iraq.
In quell’occasione, l’allora Senatore Obama
aveva chiarito che essere contro quella guerra
non significava per gli americani essere
contro tutte le guerre: «I don’t oppose all
wars» aveva ripetuto più volte nel corso
del suo intervento.
Non deve sorprendere che il Presidente degli
Stati Uniti sostenga simili posizioni, che
del resto la maggior parte degli americani
ha mostrato di condividere. Ma deve far riflettere
il fatto che, a quasi settant’anni dall’ingresso
dell’umanità nell’era atomica, e nonostante
gli enormi progressi compiuti sulla strada
dell’aumento dell’interdipendenza globale,
volere la pace continui a significare — e
non certo solo per gli Stati Uniti — prepararsi
alla guerra. La cultura sembra impotente
di fronte all’analisi delle cause che conducono
alla guerra, delle contraddizioni generate
dalla politica di potenza e della possibilità
di costruire la pace. Ecco come Reinhold
Niebuhr — un acuto filosofo del secolo scorso
che merita di essere citato tra gli altri
in quanto il Presidente Obama, in diverse
interviste, ha dichiarato di averlo studiato
e di volersi ispirare al suo pensiero — nell’introduzione
di una delle sue opere principali, The Irony
of American History, nel 1952, sintetizzava
la situazione di fronte alla quale si trovavano
gli americani: «La nostra civiltà deve essere
pronta ad usare le armi atomiche per impedire
un conflitto. Essa sa che brandire questa
minaccia potrebbe alla fine rendere inevitabile
il conflitto, ma sa anche che deve continuare
a brandirla... La nostra epoca è condannata
a vivere nell’ironia, troppi sogni sono stati
crudelmente smentiti dalla storia... Nonostante
abbiamo responsabilità mondiali e la nostra
debolezza si sia trasformata in forza, la
nostra cultura ignora come la potenza possa
essere usata e quanto se ne possa abusare.
Ma la realtà ultima è che dobbiamo usare
la potenza su scala globale».
Dopo oltre mezzo secolo, la rassegnata accettazione
della realtà che si legge in queste parole
riecheggia nel monito che il Presidente Obama
ha rivolto da Oslo all’opinione pubblica
mondiale, quando ha sostenuto che l’abolizione
della guerra non è all’ordine del giorno
nella nostra epoca: «Dobbiamo riconoscere
la dura verità che non sradicheremo i conflitti
violenti durante la vita che ci è dato vivere.
Ci saranno sempre momenti in cui gli Stati
— agendo da soli o di concerto fra loro —
troveranno l’uso della forza non solo necessario,
ma anche moralmente giustificato».
Una simile ammissione non è priva di conseguenze
pratiche. Infatti, accettare l’ineluttabilità
della guerra, quando si fa politica, e a
maggior ragione quando si governa, implica
giustificarne il ricorso e renderla moralmente
accettabile a chi deve sopportarne i costi.
Questo è quanto in effetti ha dovuto fare
il Presidente Obama nel suo intervento, in
cui ha sostenuto che la guerra è giustificabile
«quando soddisfa certe precondizioni: se
viene condotta come estrema risorsa; per
auto-difesa; se l’uso della forza è proporzionale
all’offesa subita; se i civili, ogniqualvolta
è possibile, vengono risparmiati dalla violenza»;
e che il ricorso alla guerra resta una opzione
sempre percorribile da parte di uno Stato,
in quanto «Io, come qualsiasi capo di Stato,
devo riservarmi il diritto di agire unilateralmente
se necessario per difendere la mia nazione».
Infine, citando il Presidente Kennedy, ha
ricordato che una «pace più pratica e meglio
raggiungibile richiede una graduale evoluzione
delle ‘istituzioni umane’» (di cui il primo
passo dovrebbe consistere, secondo il Presidente
Obama, nella condivisione fra gli Stati degli
«standard che governano l’uso della forza»)
e che nell’era della globalizzazione, nonostante
si possa pensare che il mondo offra sempre
maggiori occasioni di cooperazione ed integrazione
tra i popoli, «a volte si ha l’impressione
che si stiano invece facendo dei passi indietro».
Tutto ciò conferma, qualora ce ne fosse bisogno,
che nonostante il cambiamento rappresentato
dall’elezione di Barack Obama alla Presidenza
degli Stati Uniti, è al momento impensabile
che la politica estera e di difesa di questa
superpotenza cambi radicalmente rotta. E’
anzi prevedibile che gli USA cerchino di
mantenere il più a lungo possibile un ruolo
di leadership in campo tecnologico-militare
e che, nonostante le proposte di eliminare
le armi nucleari avanzate nella primavera
scorsa dal Presidente Obama, essi non rinuncino
a sviluppare il loro potenziale difensivo
in campo nucleare e convenzionale.
* * *
Fatte queste considerazioni, non può non
colpire il fatto che, ad oltre vent’anni
dalla fine della guerra fredda, il discorso
di Oslo del Presidente Obama non regga minimamente
il confronto, né nella forma né nella sostanza,
con il breve messaggio che Michail Gorbaciov
inviò nel 1990 al Comitato del Premio Nobel
per la Pace per confermare la sua accettazione
del premio. Vale la pena ricordare che allora
Gorbaciov era ancora il Presidente della
superpotenza sovietica e che aveva in quel
momento responsabilità del tutto paragonabili,
se non superiori, a quelle dell’attuale Presidente
americano. In un passaggio chiave di quel
breve messaggio si può leggere: «Kant aveva
visto che un giorno l’umanità avrebbe dovuto
scegliere tra unirsi in una vera unione di
Stati o perire in una guerra che avrebbe
significato la fine della razza umana. Mentre
ci accingiamo ad entrare in un nuovo millennio,
è giunta per noi l’ora della verità». Come
mai oggi nessuno avrebbe più il coraggio
di pronunciare queste parole?
Se non si vuole rimanere prigionieri dell’idea
superficiale e ingenua secondo cui la situazione
potrebbe essere diversa oggi se alla testa
degli Stati Uniti — o di qualche altra potenza
— ci fosse un uomo della Provvidenza, è bene
non cadere nell’illusione che le grandi svolte
in campo internazionale dipendano soprattutto
dai comportamenti dei singoli e dai rapporti
personali tra chi governa gli Stati. Non
si tratta evidentemente di sminuire o negare
l’importanza che hanno gli individui nel
contribuire a costruire la storia, ma semplicemente
di riconoscere che le decisioni cruciali
dipendono anche ma non solo dalla loro opera.
In particolare, la scelta di fare la guerra
o di costruire la pace non è imputabile a
singole persone isolate dal contesto storico-politico
e sociale in cui si trovano ad agire. In
realtà, come ha osservato Mario Albertini,
quando è in gioco il destino di un popolo
le decisioni cruciali non riguardano mai
i soli uomini di Stato, bensì «un gruppo
che non si può designare nemmeno con la parola
‘governo’, tanto lo sovrasta, ma solo con
la parola ‘Stato’, e solo quando essa è comprensiva
anche del concetto di ‘società civile’, vale
a dire il gruppo formato dalla relazione
sociale che ha sempre costituito, dall’inizio
della storia, la massima garanzia di responsabilità
nel controllo della condotta umana» (La difesa
dell’Europa e il significato delle armi nucleari,
in Le Fédéraliste, VI, 1964). Quindi, di
norma, le decisioni degli uomini di governo,
soprattutto e a maggior ragione nel caso
di Stati che per motivi storici e politici
hanno maggiori responsabilità nella gestione
degli affari mondiali, sono tendenzialmente
sempre subordinate al confronto sia con il
gruppo di tutte le persone che hanno un interesse
vitale nella decisione da prendere, sia con
l’esperienza storica fatta o subita. Il passaggio
di un rapporto al Congresso degli Stati Uniti
del febbraio 1971 dell’allora Presidente
degli Stati Uniti Richard Nixon, offre nella
fattispecie una testimonianza illuminante
della forza pratica di questo vincolo (e
indirettamente della intrinseca necessità
della continuità nella politica americana).
Quando è in gioco la sicurezza di un popolo,
spiegava Nixon, «ogni Amministrazione è semplicemente
l’anello di una catena», sia nella formazione
delle decisioni sia temporalmente, in quanto
«essa eredita la forza in essere della nazione.
Sono infatti le politiche decise dalle Amministrazioni
precedenti che determinano i margini di manovra
di quelle future». E così proseguiva: «Sono
del tutto consapevole che le mie decisioni
per quanto concerne la politica della difesa
influenzeranno profondamente l’azione di
chi mi succederà. Non posso che riconoscere
la mia ignoranza, la mia attuale possibilità
di presagire solo in modo imperfetto, e quindi
in sostanza di non conoscere, la portata
delle crisi che chi seguirà dovrà affrontare.
Qui ed ora devo limitarmi ad essere un forte
anello della catena».
Con ciò abbiamo elementi sufficienti per
comprendere, se non addirittura per giustificare,
perché anche il Presidente Obama non può
che agire come l’attuale anello della lunga
catena che lega il passato con il futuro
della sicurezza degli Stati Uniti. E in quanto
tale egli non può ignorare l’esistenza del
rischio, confermata tra l’altro dal fatto
che il suo paese è già in guerra, di dover
ancora ricorrere o reagire ad una prova di
forza in campo internazionale. Che questa
preoccupazione sia fondata trova del resto
conferma non solo nell’impetuosa e apparentemente
incontrollabile ascesa di nuove potenze a
livello mondiale, ma anche nell’oggettiva
difficoltà che incontra chiunque sia animato
dalla buona intenzione e dalla buona volontà
di promuovere, in questa fase storica, se
non l’abolizione della guerra, almeno una
credibile agenda per il disarmo — nella consapevolezza
che il disarmo, di per sé, non può portare
automaticamente alla pace mondiale, ma anche
che se fosse seriamente promosso e condiviso
potrebbe favorire l’instaurazione di quel
clima di maggior fiducia reciproca fra gli
Stati, indispensabile per promuovere la creazione
di un governo mondiale più cooperativo sul
terreno della sicurezza internazionale. Un’ennesima
prova di questa difficoltà è venuta dalla
pubblicazione, solo qualche settimana prima
del discorso del Presidente Obama, del rapporto
dell’International Commission on Nuclear
Non-Proliferation and Disarmament, la commissione
intergovernativa co-presieduta dall’australiano
Gareth Evans e dal giapponese Yoriko Kawaguchi.
Questo rapporto, commissionato in vista della
ripresa nel 2010 dei negoziati sulla revisione
del Trattato di Non-Proliferazione, conferma
quanto sarebbe pericoloso continuare ad illudersi
di fondare la sicurezza globale sul mantenimento
dello status quo degli equilibri di forza
in campo nucleare e convenzionale. Tenendo
conto di questo rischio, il rapporto propone
ai paesi che hanno già aderito al Trattato
di Non-Proliferazione di approvare entro
il 2012 un ambizioso piano per la minimizzazione
dei rischi collegati alla proliferazione
nucleare, riducendo gli arsenali a meno del
dieci per cento di quelli esistenti e stabilendo
un calendario definito e vincolante per procedere,
a partire dal 2025, alla definitiva abolizione
delle armi di distruzione di massa. Il problema
è che un simile processo, come ammoniscono
gli stessi estensori del rapporto, è destinato
a rimanere sulla carta, se non verrà nel
contempo affrontato e risolto il problema
della sicurezza su scala regionale anche
in campo convenzionale. Infatti, «se non
si farà tutto il possibile per risolvere
i vari ‘dilemmi’ regionali nel campo della
sicurezza e quindi per riequilibrare gli
schieramenti convenzionali, gli USA, la Russia
e la Cina non potranno accordarsi su alcun
piano di minimizzazione — per non dire di
abolizione — delle armi nucleari» (par. 6.16).
Questo perché, come spiega il rapporto, a
fronte di una riduzione del rischio dell’impiego
delle armi nucleari fra potenze nucleari,
dovuta all’inaccettabilità dei danni umani
e materiali collegati ad un loro eventuale
impiego diretto, si è assistito negli ultimi
anni ad una preoccupante rivalutazione del
ruolo delle armi convenzionali nella difesa
di alcuni Stati: «Non possiamo sottovalutare
le preoccupazioni espresse dalla Russia,
dalla Cina e da altri Stati, a proposito
del fatto che un mondo senza armi nucleari,
o con un numero molto ridotto di esse, aggraverebbe
il loro grado di inferiorità nei confronti
della potenza convenzionale di cui dispongono
gli USA. E’ un’ironia della sorte il fatto
che mentre una crescente valorizzazione degli
arsenali convenzionali gioca a favore del
disarmo nucleare americano, questo stesso
fenomeno è visto con sospetto altrove. Ed
è sempre un’ironia della sorte, che mentre
in passato, durante la guerra fredda, fu
la superiorità in campo convenzionale dell’URSS
a dare impulso all’escalation degli arsenali
nucleari americani per difendere l’Europa,
oggi la Russia teme la superiorità convenzionale
degli occidentali ai suoi confini. Per questo
occorrerebbe: 1) rivedere il Trattato sullo
spiegamento delle forze convenzionali in
Europa, negoziato durante gli ultimi anni
della guerra fredda ed entrato in vigore
nel 1999...; 2) tenere conto delle preoccupazioni
di Russia e Cina a proposito dell’espansione
dei sistemi missilistici convenzionali degli
Stati Uniti, che mettono questi ultimi in
una condizione di superiorità strategica,
dotandoli della possibilità di sferrare il
primo colpo riducendo i rischi di ritorsione»
(par. 18.3).
Se queste osservazioni hanno un senso — e
per i governi ce l’hanno nella misura in
cui devono programmare per tempo investimenti
consistenti e stringere alleanze internazionali
adeguate ai loro interessi —, non siamo alla
vigilia di una stagione pacifica nell’evoluzione
dei rapporti internazionali e nel modo di
gestirli. Questi dati infatti confermano
la necessità per ogni Stato, e a maggior
ragione per le vecchie e nuove potenze, di
non escludere per il prevedibile futuro la
prospettiva dell’uso, o della minaccia dell’uso,
della forza; e implicano che ogni paese debba
continuare ad organizzare i rapporti all’interno
e verso l’esterno con lo scopo precipuo di
dotarsi dei mezzi adeguati per salvaguardare
la propria sopravvivenza. In definitiva,
il fatto che gli attori internazionali ed
i loro interessi geopolitici stiano cambiando,
come pure stanno cambiando le dottrine militari
in relazione ai nuovi mezzi distruttivi di
cui dispongono gli Stati, non ha modificato
la natura demoniaca della logica di potenza.
E’ accettabile abbandonare il governo del
mondo a questa logica? Certamente nessun
individuo ragionevole lo farebbe.
* * *
L’umanità deve dunque scegliere. Può continuare
a convivere con la prospettiva, che tutti
ritengono irragionevole, di correre i gravi
rischi di auto-distruzione impliciti nel
mantenimento della guerra nella storia. Oppure
può incominciare finalmente a collegare le
aspirazioni per un ordine mondiale più equilibrato,
democratico, giusto e pacifico, che tutti
ritengono invece ragionevole, con l’obiettivo
di costruire i presupposti dell’unità politica
del genere umano. Il fatto è che in politica
la buona volontà e la ragionevolezza non
giovano a nulla se non sono associate al
potere di incidere sulla realtà effettiva.
Questo spiega perché oggi, quando si prende
in esame la necessità di integrare o addirittura
di unire sempre di più il mondo, si tende
realisticamente a fare affidamento sul potere
esistente, in massima parte ancora concentrato
negli Stati, o al massimo a rivolgersi a
quelle istituzioni ed organizzazioni internazionali
che sono state via via create dopo la fine
della seconda guerra mondiale per promuovere
la cooperazione internazionale. Istituzioni
ed organizzazioni che però prefigurano solo
l’ombra di un sistema di governo mondiale,
ma che non lo sono né possono diventarlo
in quanto la loro vita e la loro azione si
basano proprio su ciò che in prospettiva
dovrebbe essere superato per governare razionalmente
il mondo: la sovranità degli Stati. Per questo,
se si vuole rilanciare un’azione per affermare
davvero la pace, non si può e non si deve
dare per scontata l’esistenza, oggi, di un
quadro mondiale adeguato a favorire la maturazione
delle forze in campo e sufficiente a spingere
almeno alcuni Stati chiave a promuovere un
processo di unificazione politica.
Perché il quadro cambi è invece indispensabile
che l’attuale equilibrio mondiale sia modificato
dall’ingresso di un altro soggetto, abbastanza
forte da non far dipendere la propria sicurezza
da altri per non essere ricattabile, ma che,
per la sua posizione geopolitica, non possa
fare della crescita della potenza militare,
di cui dovrà in qualche modo disporre per
essere minimamente credibile, il fondamento
della sua forza ed influenza nel mondo.
Questo nuovo protagonista dell’equilibrio
mondiale non può essere che l’Europa. Soltanto
essa, in potenza, ha tutti i requisiti necessari
per esercitare il ruolo di mediatore e di
promotore di efficaci iniziative tendenti
a favorire in primo luogo la riduzione della
tensione tra USA e Russia. Solo dagli europei
potrebbe venire un impulso a battersi per
l’adozione di un’agenda credibile di disarmo
— nucleare e convenzionale — proprio a partire
dal proprio continente. E ancora, soprattutto
dall’Europa potrebbe venire un’azione riequilibratrice
nei confronti di un’espansione commerciale
ed economica cinese in Africa che, se lasciata
senza contrappesi, è destinata ad essere
foriera di nuove tensioni. Infine spetterebbe
proprio agli europei farsi carico della soluzione
dei principali nodi che minano la sicurezza
e lo sviluppo nella regione medio orientale.
Ora, la possibilità di fare tutto ciò dipende
in ultima istanza dalla capacità degli europei
stessi di assicurare, realizzando sul loro
continente l’unità politica tra più Stati,
una presenza autorevole e indipendente nell’equilibrio
mondiale e di dare al resto del pianeta l’esempio
della possibilità di allargare la dimensione
dello Stato e la sfera del governo dei problemi
superando la sovranità degli Stati esistenti.
Non si può infatti realisticamente pensare
che americani, russi e cinesi possano domani
collaborare, insieme agli europei, per porre
le basi dell’unità politica del genere umano,
se in primo luogo francesi e tedeschi non
saranno stati in grado di dar vita, legandosi
ad altri Stati con un vincolo federale, ad
un primo nucleo di Stato continentale europeo.
Uno Stato diverso dai modelli di Stato che
già esistono, ma un vero e proprio Stato
che possa agire sul piano internazionale,
non semplicemente un nuovo Commonwealth o
un’unione di Stati, qual è per esempio condannata
a rimanere l’Unione europea.
* * *
In conclusione, la strada più ragionevole
e pacifica per contribuire alla costruzione
della pace passa ancora per l’Europa. Per
questo la responsabilità storica e politica
che pesa sugli europei è enorme. In ogni
caso essi non devono illudersi di poter vivere
nel benessere e in pace in un mondo interdipendente
in cui la guerra resta possibile. Se essi
si dimostreranno incapaci di percorrere la
strada dell’unità, dando al mantenimento
della sovranità dei loro Stati la priorità
rispetto al perseguimento degli obiettivi
dell’interesse e della sicurezza comuni e
della progressiva realizzazione della pace
nel mondo, subiranno le conseguenze inevitabili
di quella dura realtà di cui il Presidente
Obama nel suo discorso sulla pace ha svelato
i contorni.
Il Federalista
 
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