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15 Settembre, 2002
'La fuga è impossibile'
E’ un luogo misero, opprimente, dove 70.000 profughi palestinesi sono ammassati in un chilometro quadrato, e dove la violenza è la norma. (da www.osservatorioiraq.it )

''La fuga è impossibile''
E’ un luogo misero, opprimente, dove 70.000 profughi palestinesi sono ammassati in un chilometro quadrato, e dove la violenza è la norma. Ghaith Abdul-Ahad visita Ain al-Hilweh, il più grande campo profughi del Libano, e parla con una nuova generazione di 'jihadisti', la cui esperienza riflette l’ islamizzazione della gioventù araba da un capo all’altro del Medio Oriente.

di Ghaith Abdul-Ahad
The Guardian, 12 giugno, 2007

E’ un lunedì all’inizio del mese di giugno, e quattro combattenti 'jihadisti' con la barba sono nascosti in un negozio per la riparazione di biciclette, a meno di 50 metri da una postazione dell'esercito libanese, all’ingresso del campo profughi di Ain al-Hilweh, il più grande di tutto il Libano. Intorno a loro ha luogo una scena di combattimento usuale; l’odore del cemento bruciato mischiato a quello della polvere da sparo, una nuvola di fumo che si alza, gli edifici bucherellati da centinaia di fori di proiettile. La strada è vuota, se non per un occasionale combattente solitario, che corre a tutta velocità da un lato all'altro della strada, da una postazione all’altra.

Gli scontri tra il gruppo 'jihadista' palestinese di Jund al-Sham e l’ esercito libanese sono terminati poche ore fa, lasciando sul campo almeno un militante morto e altri tre feriti. L’ esercito ha perso due uomini.

Gli abitanti si stanno già allontanando, temendo il ripetersi dei furiosi combattimenti di due settimane fa, tra un altro gruppo 'jihadista' (Fatah al- Islam) e l’esercito libanese, in un altro campo palestinese. Lì, nel campo profughi, più piccolo, di Nahr al-Bared, a Tripoli, nel nord del Libano erano state uccise almeno 70 persone.

Un combattente poco più che ventenne, con una T- shirt nera con su scritto “Allahu Akbar“, [“Dio è grande” NdT] che stringe affettuosamente un fucile automatico M16 fra le gambe, dice: “I soldati sono dei vigliacchi. Questo è un campo profughi palestinese, non è Israele. ”

Si dice che il gruppo islamista Jund al-Sham non abbia più di 50 combattenti. Come in altri gruppi 'jihadisti' nel campo, alcuni di loro sono veterani della guerra in Iraq. Questi gruppi stanno prosperando sempre più nei campi profughi palestinesi del Libano, che esistono dal 1948, quando i palestinesi fuggirono o furono espulsi [dalla Palestina] per far posto alla creazione dello Stato di Israele. In Libano sono stati istituiti 12 campi profughi di questo tipo, il più conosciuto dei quali, Sabra e Chatila, divenne famigerato nel 1982, quando l’Esercito del Libano del sud massacrò fino a 3.500 persone, molte delle quali civili, sotto la protezione dell’esercito israeliano.

Sotto molti aspetti, Ain al-Hilweh e altri campi profughi sono il microcosmo di uno Stato arabo fallito, della sua rabbia e della sua politica: stipati, affollati, frustrati, focolai, e accerchiati da guardie armate. Riflettono la politicizzazione, l'islamizzazione, e la radicalizzazione della gioventù araba in tutto il Medio Oriente.

Chi li abita è oppresso, costretto in povertà da regimi corrotti e malgestiti; i residenti sono rinchiusi da limitazioni per ottenere un visto, e da confini quasi impossibili da attraversare.

Da anni ormai le fazioni laiche, dominanti negli anni ’70, sono state sfidate dall’astro nascente dei 'jihadisti' e dei fondamentalisti. Nel mezzo di tutto c'è una nazione assediata, piena di rabbia, principalmente verso Israele, dove molte delle sue famiglie vivevano fino al 1948. Queste non sono solo le realtà di Ain al-Hilweh, ma di tutto il Medio Oriente.

Ain al-Hilweh è il più grande dei campi profughi palestinesi in Libano, situato nel sud del Paese, ai margini dell’antica città di Sidone, a meno di un’ora d’auto dai confini settentrionali di Israele. Il nome significa “sorgente d’acqua dolce“.

Quasi 50 anni fa, l'UNRWA – l'Agenzia delle Nazioni Unite per l’assistenza ai profughi palestinesi – allora creata da poco, prese in affitto la terra intorno alla sorgente d'acqua dolce dal governo libanese, per fornire un rifugio temporaneo alle decine di migliaia di profughi palestinesi che allora stavano affluendo in massa nel sud del Libano.

Sessant’anni e quattro generazioni dopo, il campo somiglia in tutto e per tutto a una qualsiasi altra miserevole cittadina araba; un mercato molto attivo, case costruite con blocchi di calcestruzzo di scorie vicinissime l’una all’altra, bambini e polli che corrono per strade sporche tra mucchi di immondizia, fogne a cielo aperto, negozi di dischi da cui esce a tutto volume musica pop araba tutto il giorno, e giovani in jeans attillati fermi agli angoli delle strade che lanciano sguardi ad altri giovani in jeans, cercando la rissa per rompere il ciclo mortalmente noioso della giornata.

Proprio come la città immaginata nel film “Fuga da New York”, Ain al-Hilweh, assomiglia a un enorme carcere di massima sicurezza. I muri, nella parte in alto, sono coperti con filo spinato, le postazioni dell’ esercito fortificate e i veicoli blindati. Fino a 70.000 profughi palestinesi sono ammassati in un chilometro quadrato.

I disoccupati, i rivoluzionari, e i fondamentalisti vagano per le strade come bande. La violenza è la normalità, e la fuga impossibile.

I soldati di leva libanesi, che indossano elmetti di latta e giubbotti antiproiettile Usa dell’era del Vietnam, e armati di fucili M16, stanno a guardia dei checkpoint che conducono nel campo. Dietro di loro sono piazzate fortificazioni fatte di copertoni e barili riempiti di sabbia. Controllano le carte di identità di tutti coloro che entrano o escono dal campo. A chi guida viene chiesto di aprire il bagagliaio dell’auto, e giornalisti, cooperanti delle organizzazioni non governative, e stranieri devono richiedere l’autorizzazione dell’ intelligence militare libanese, anche solo per entrare nel campo.

“Qualche volta noi lo chiamiamo Gaza II”, mi era stato detto poche settimane fa da un giovane studente palestinese, magrissimo, mentre trattavamo per passare il checkpoint.

Ma quando vado di nuovo a visitare il campo, due giorni dopo i recenti combattimenti, il checkpoint principale è quasi deserto. Soldati scossi controllano velocemente la mia carta di identità e mi fanno cenno di passare. Il terreno è coperto da bossoli vuoti, ricordo dei pesanti scontri.

Pochi metri più avanti di quello dell’ esercito libanese, c’è un altro checkpoint. Questo è presidiato dai soldati della lotta armata: due uomini anziani, che imbracciano Kalashnikov, vestiti in tuta mimetica, baschi rossi e scarpe da ginnastica. Sono veterani della OLP degli anni ’70, l'apogeo dell’organizzazione.

Ora siete in “territorio palestinese”.

Da lì iniziano a vedersi graffiti e manifesti, fotografie di Yasser Arafat, il leader laico palestinese della OLP, accanto a quelle dello sceicco Ahmed Yassin - il leader spirituale di Hamas, assassinato dagli israeliani.

Le strade principali del campo, di solito affollate di gente e motorini, sono vuote. Miliziani con barbe dalle forme più disparate e di fazioni diverse sono in piedi agli angoli delle strade, sotto le insegne dei loro gruppi. La via sembra un bazar di sigle rivoluzionarie vecchie e nuove: PFLP [Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina NdT], DFLP [Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina NdT], Fatah, Hamas, e così via.

Ogni quartiere porta il nome del villaggio o della cittadina della Palestina di cui sono originari i suoi abitanti, e condivide una qualche fedeltà politica verso una delle fazioni. La maggior parte degli attuali residenti del campo, non hanno mai fatto visita alle case delle loro famiglie, che generalmente sono in Galilea, in quello che ora è il nord di Israele.

Hind è una giovane donna palestinese e un’attivista di sinistra. Non porta l’hijab [il particolare velo che copre il capo delle donne islamiche NdT], e veste sempre con pantaloni larghi, senza forma, e una sciarpa rossa, verde e nera. Vive fuori dal campo, nella città di Sidone, ma è nata a Ain al-Hilweh e ne conosce ogni più piccolo vicolo.

Riesce a saltare da un pesante accento palestinese al libanese. Passa tutto il suo tempo nel campo, organizzando mostre e altre attività. Un giorno le ho chiesto cosa si prova a sentirsi chiamare “palestinese”, sebbene suo padre, come lei, sia nato in un campo profughi di un altro Paese. Mi ha risposto raccontando di quando, dopo il ritiro israeliano dal sud del Libano, era andata con alcuni amici verso il confine. “ Eravamo in piedi sul bordo del recinto, la Palestina era là, di fronte a noi, ” diceva. “ La brezza che veniva dalla Palestina era diversa, era dolce, veniva dalla nostra terra. ”

Pochi metri più in là, sulla via principale, c’ è il quartier generale militare del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), il gruppo marxista militante che negli anni ’70 si rese responsabile di azioni militari spettacolari, come il dirottamento di un aereo della compagnia El Al da parte di Leila Khaled.

Il quartier generale è una stanzetta con due letti da campo. Il comandante, un uomo magro sulla quarantina avanzata, siede su uno dei letti, con il basco rosso che riposa sulla cima del capo, e ciuffi di capelli che gli cadono sulla fronte. Beve caffè nero e giocherella con il telefono. Attorno a lui, altri quattro veterani dei decenni di guerra della fazione sono riuniti intorno a un tavolino. Sono vestiti in equipaggiamento da combattimento; sono tutti in allarme rosso a causa degli scontri.

“Il campo è costituito da diverse fazioni e tutti appartengono a una di queste,” mi dice il comandante. “ Non posso accompagnarti fino alla fine della strada, perché la giurisdizione del PFLP finisce a un paio di isolati da qui. Ogni gruppo ha il suo territorio. ”

“Qui formare una fazione e una milizia è così facile”, dice. “Noi siamo poveri, i nostri partiti non ci pagano, non possiamo andarcene da qui, e non possiamo viaggiare, così se qualcuno paga un ragazzo 500 dollari al mese, è ovvio che questo ragazzo si arruoli in qualsiasi movimento. La maggior parte di questi 'jihadisti' una volta erano nostri combattenti di altre fazioni palestinesi“.

Riflette per un momento. “Se tu venissi da me e mi offrissi 100.000 dollari, io lascerei il PFLP e formerei il PFLP: Esercito dei Credenti. E’ così semplice”. Il contrasto fra i combattenti delle vecchie fazioni "laiche", malaticci, mal equipaggiati e malnutriti, e i 'jihadisti' muscolosi, con la barba, e ben equipaggiati è enorme.

Mi accingo a incontrare un membro di questa nuova generazione di radicali - un guerrigliero nonché il comandante di Usbat al-Ansar, un gruppo di palestinesi 'jihadisti' del campo, di nome Abu Omar. La prima volta che ci incontrammo fu più di un anno fa, quando mi fu detto dai suoi amici che era “molto simpatico e molto dolce… racconta sempre barzellette”. Si dice che il governo libanese lo abbia condannato a morte tre volte.

Mi dirigo verso la zona dove sono avvenuti i combattimenti tra l’esercito libanese e i fondamentalisti islamici, una sorta di terra di nessuno fra il confine del campo, e i checkpoint dell’esercito libanese.

“Tamir” è il territorio dei fondamentalisti islamici, dove la maggioranza degli uomini nelle strade porta lunghe barbe e alcuni indossano lo “shalwar kameez” [la tradizionale tonaca vestita dagli islamici NdT] e i copricapi neri da preghiera, i capi d’abbigliamento che sono la firma dei fondamentalisti islamici della 'jihadisti' salafiti nella regione.

La zona è diventata anche un rifugio sicuro, non solo per i 'jihadisti' appena arrivati dall’Iraq, ma anche per criminali ricercati dalla legge, come i mercanti d’ armi.

“Lunga vita al leader Zarqawi”, è scritto su un muro, riferito al comandante di al-Qaida in Iraq, ucciso l’ anno scorso. Un manifesto appeso a un palo della luce, mostra il fotomontaggio di un giovane che imbraccia un fucile di fronte a un Humvee Usa in fiamme. Sopra è scritto: “Il martire, il leone, l’eroe, condannato al martirio in Iraq nel 2005, combattendo i crociati. ”

Incontro per caso due miliziani, che si stanno rilassando all’ombra di un palazzo, mentre tengono d’occhio la linea del fronte. Gli chiedo se sanno dov’è Abu Omar.

“Chi lo vuole vedere ?”, mi chiede uno di loro, ancora intento a mangiare il gelato.

Gli spiego che già conosco Abu Omar.

Mi chiedono di seguirli, e quindi ci inoltriamo attraverso un dedalo di viuzze, che porta in un cortile dove è seduto Abu Omar, circondato dai suoi uomini.

Sembra una versione araba del dio scandinavo Thor: alto, con enormi braccia muscolose, un torace magro, una barba rossa molto folta, e lunghi capelli annodati. Al suo fianco una mitraglietta, due pistole, e otto riviste. Un veterano della jihad in Iraq, mi si rivolge utilizzando parole irachene.

Una volta mi disse che le sue due nuove Glock nere - il tipo di pistola che l’ esercito Usa fornisce alla polizia irachena - erano i suoi “trofei di guerra”.

E’ nato nel campo di Ain al-Hilweh, Abu Omar, come suo padre; suo nonno arrivò in Libano come rifugiato dalla Galilea dopo la guerra del 1948, quando era ancora un ragazzino.

All’età di sei anni, seguì i primi corsi di addestramento militare in un campo della OLP. “ Nel 1982, quando gli israeliani invasero il Libano, avevo 12 anni”, dice. “Non ho combattuto molto a quel tempo, ma quell’ esperienza mi ha aiutato molto a modellare il combattente che era in me. Avevamo il compito di portare le munizioni ai combattenti”.

Tre anni dopo, divenne un combattente in piena regola, quando, a metà degli anni ’80, nel bel mezzo della guerra civile libanese, le fazioni sciite sostenute dalla Siria iniziarono un conflitto lungo due anni contro i campi profughi palestinesi.

Agli inizi degli anni '90 si unì al gruppo fondamentalista radicale Usbat al-Ansar.

Ma la svolta decisiva la diede la guerra in Iraq. Invece di combattere contro le altre fazioni nel campo, essi trovarono un nemico migliore, e, come molti in tutto il Medio Oriente, i loro sogni di jihad a lungo attesi potevano realizzarsi in Iraq.

Ora Usbat al-Ansar è considerata una delle fazioni più potenti nel campo; è sommersa dal denaro proveniente dalle reti 'jihadiste' in Medio Oriente, e ha un esercito regolare formato da giovani 'jihadisti', ben indottrinati e pieni di entusiasmo.

La storia della loro ascesa e della morte dei movimenti laici rispecchia la storia del Medio Oriente.

“Combatto dall’età di sei anni, e vi dico che i combattenti apostati della OLP laica sono più coraggiosi degli americani", dice Abu Omar. “Almeno loro non si nascondono dietro Humvee blindati”. Dice di essere andato in Iraq non come un kamikaze suicida, ma per fornire addestramento agli iracheni e ad altri giovani arabi, provenienti per lo più da Arabia Saudita e dagli stati del Golfo. “Saddam ha distrutto l’esercito iracheno: ha creato un mucchio di ufficiali corrotti e sovrappeso, che non sapevano combattere”.

Dice di aver partecipato a molti attacchi contro l’esercito Usa e quello iracheno.

Per qualche tempo il suo gruppo ebbe una base nella città di Tal Afar, nel nord Iraq, finchè un attacco guidato dagli Usa non li costrinse a uscire dalla città e tornò a Ramadi. In Iraq ha fatto due viaggi, di sei mesi ciascuno.

“La gente mi chiede perché non vado a combattere per la liberazione del mio Paese, dal momento che sono palestinese, invece di combattere in Iraq”, dice Abu Omar. “Io gli rispondo che è lo stesso popolo, noi qui in Palestina abbiamo gli ebrei, e lì in Iraq ci sono gli americani. Sono entrambe occupazioni”.

Si tagliò la lunga barba e gli iracheni che incontrò al confine gli fornirono un documento di identità falso. (La sua carta di identità irachena somiglia in tutto e per tutto alla mia che è autentica). Gli fu dato un nome sciita.

Egli capisce perfettamente perché i 'jihadisti' abbiano un successo così vasto nel campo. “Se la situazione economica e quella della sicurezza fossero stabili, i movimenti 'jihadisti' quasi non esisterebbero”, dice. “E’ solo quando si crea un vuoto di sicurezza che la jihad prospera. Proprio come in Iraq”.

I miliziani con il gelato stanno in piedi dietro Abu Omar in rispettoso silenzio, in parte guardie del corpo, in parte suoi discepoli. Uno di loro, un uomo alto e muscoloso, con una pistola alla cintura, sostiene di aver iniziato a combattere con l’esercito libanese il giorno prima.

“Loro (i soldati libanesi) ci provocavano, ci dicevano: ‘Vi uccideremo come stiamo uccidendo quelli di Fatah al-Islam (nel campo di Nahr al-Bared)’”, dice. “Allora sono tornato a casa con il mio amico, abbiamo preso le armi, e abbiamo iniziato a sparargli addosso”. Subito altri miliziani si sono uniti ai combattimenti, ed è iniziata a infuriare una vera e propria battaglia che è andata avanti per ore. “Abu Omar ci aveva insegnato come combattere”, mi disse il giovane miliziano.

Incontro Saleh per la prima volta a un sit-in del PFLP all’ingresso del campo, una protesta per chiedere il rilascio dei leader di Gaza, imprigionati dall’esercito israeliano poche settimane prima.

Sedie di plastica sono disposte in un grande cerchio, un uomo sta leggendo discorsi al microfono, il caffè viene servito in tazze di plastica, i muri sono decorati con foto di leader e loghi, e un Kalashnikov con un pezzo di stoffa rossa avvolto intorno alla canna, è adagiato accanto alla foto del leader imprigionato, come un mazzo di fiori.

Uno striscione appeso al muro dice: “Combatteremo per la Palestina, generazione dopo generazione”.

Saleh è seduto con i suoi amici sotto il manifesto di un altro leader morto. Ha vent’ anni, ma ne dimostra sedici. I suoi capelli, alle estremità sono tinti di un colore tra il biondo e l’arancione. Ha una piccola mappa della Palestina in legno appesa al collo. “Questa viene dall'interno”, dice, in riferimento alle parti della Palestina che divennero territorio israeliano nel 1948 - un luogo mitico per tutti coloro in esilio da così tanto tempo. “Da Jaffa” . Tiene stretto il piccolo pezzo di legno come fosse un pezzo della croce di Cristo.

Come la maggior parte dei giovani qui, è disoccupato e ha abbandonato la scuola quando aveva 12 anni, per poi entrare nel gruppo marxista palestinese PFLP. Suo padre, sua madre, e suo zio erano tutti comunisti.

“Al mattino mi sveglio, e poi me ne vado a zonzo con i miei amici”, dice, nell'ufficio sudicio del PFLP con i suoi divani logori. “E’ così noioso qui. Anche le persone che incontro, è tutta la vita che le incontro. Non abbiamo più niente da dirci".

“Esci dal campo?”, gli chiedo.

“No”.

“Perché no? Il mare qui vicino è molto bello”.

“Non mi piace sentirmi un pesce fuor d’ acqua. Non mi piace uscire - ogni volta che veniamo fermati a quel checkpoint, i soldati libanesi ci guardano come se fossimo spazzatura”.

In teoria i palestinesi possono lasciare il campo quando vogliono, ma nella pratica sono soggetti a controlli draconiani, specie dopo i fatti di Nahr al-Bared. Al minimo accenno di problema che riguardi i palestinesi in Libano, l’esercito ha l’ordine di chiudere il campo.

Negli ultimi sessant’ anni, i palestinesi in Libano sono stati relegati ai margini della società, e hanno ancora rapporti difficili con i libanesi, alcuni dei quali li accusano di essere la causa della guerra civile, e di aver combattuto, in un momento o nell’ altro contro qualsiasi fazione. Sono soggetti a leggi discriminatorie: i loro movimenti sono limitati, gli viene proibito di possedere o ereditare una qualsivoglia proprietà, e gli viene impedito di svolgere 72 profession. Questo significa che qui la maggior parte dei giovani palestinesi sono disoccupati, e quelli abbastanza fortunati da trovare un lavoro possono solo fare i barbieri, gli autisti di taxi, o gli operai edili. Vivono una vita segregata.

Intanto l’atmosfera di anarchia rende il campo il rifugio preferito dai 'jihadisti' e da altri miliziani, molti dei quali sono ricercati dalle autorità libanesi, che non hanno nessun potere all'interno del campo. (Queste ultime hanno sottoscritto delle intese in materia di sicurezza con le fazioni palestinesi, nell'Accordo del Cairo, nel 1969).

Mi incammino verso casa di Saleh. I muri sono nudi blocchi di cemento; sua madre, un tempo una rivoluzionaria di sinistra, è seduta nel cortile pelando patate. Ha un hijab avvolto intorno alla testa.

La stanza di Saleh racconta la storia di tutte le rivoluzioni e di tutte le sconfitte in Medio Oriente. E’ minuscola: tre metri per due.

C’è un piccolo busto di Lenin in bronzo, una bandiera rossa, una foto di Che Guevara, e due ritratti di Hassan Nasrallah, il capo del gruppo islamico sciita Hizbullah.

Potrebbe sorprendere che un progressista laico possa essere così affascinato da un partito religioso come Hizbullah, ma questo è comune in tutto il Libano e il Medio Oriente. “Ora lui è il nostro eroe”, dice, mentre indica il religioso con il turbante nero e la folta barba.

Il percorso politico di Saleh mi risulta più chiaro qualche giorno dopo, quando incontro un altro palestinese a Beirut, un combattente sulla cinquantina, marxista convinto, con il viso ricoperto di rughe. “Io non ho mai perso la mia bussola politica”, dice. “Ovunque siano gli americani o gli israeliani, io sono sempre dalla parte opposta. Perciò se ora Hizbullah, gli iraniani, e i fondamentalisti islamici sono contro gli americani, allora io sono un fondamentalista islamico. ”

E’ questa un’altra delle ragioni del perché i fondamentalisti islamici stanno andando così forte? Lo chiedo ad Abu Obaida, un altro leader del gruppo 'jihadista' Usbat al-Ansar. “Tutti gli altri movimenti hanno dimostrato il loro fallimento”, dice. “Tutti hanno fallito, i laici, i nazionalisti, i comunisti; l’ipocrisia della loro retorica è stata smascherata”.

Nell’ufficio di una fazione laica, un alto funzionario ha cercato di spiegarlo meglio.

"Abbiamo dei giovani che non hanno niente, nessuna speranza di avere una nazione, nessuna speranza di avere il diritto al ritorno dei profughi, niente altro se non le due strade del campo. Con questa situazione non mi sorprenderei se la metà dei residenti nel campo diventassero 'jihadisti'. Ain al -Hilweh, questo è il vostro Stato fallito".

(Traduzione di Francesco Spataro per Osservatorio Iraq)

da www.osservatorioiraq.it

 


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