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15 Settembre, 2002
Il mondo litiga, l'Europa tace (di G.G. Migone da www.unita.it)
Esiste un'insufficiente consapevolezza, a Bruxelles come nelle altre capitali europee, di ciò che l'Europa non solo deve ma può fare .....

Esiste un'insufficiente consapevolezza, a Bruxelles come nelle altre capitali europee, di ciò che l'Europa non solo deve ma può fare, per evitare che nubi sempre più numerose e oscure si trasformino in una tempesta di cui è difficile prevedere le dimensioni e, soprattutto, la fine. Gli apprendisti stregoni che occupano tuttora le principali stanze del potere di Washington non sanno come, forse non vogliono, far rientrare nelle loro provette tutti gli spiriti maligni che hanno evocato - dalla Polonia alla Cina, passando per il Golfo Persico e Mosca - né la stagione elettorale si presta ad un così arduo esercizio, in cui lo stesso Dipartimento di Stato sembra tardivamente impegnato.

Come disse Tip O'Neill, non dimenticato presidente della Camera dei Rappresentanti, «All politics is local»: tutte le scelte, anche quelle geograficamente più remote, devono fare i conti con le reazioni degli elettori nelle località più remote dell'America profonda. In una stagione elettorale, come quella attuale - siamo ad un anno dalle elezioni presidenziali - tutto diventa possibile, in positivo e in negativo. Sono egregi e necessari gli sforzi diplomatici europei, come quelli in atto per rallentare le dinamiche di un intervento militare in Iran, rafforzare la componente civile di quello in Afghanistan, trovare una soluzione politica condivisa in Libano, evitare un intervento turco nel Kurdistan iracheno, incoraggiare l'apertura nei confronti di Mosca sullo scudo stellare (pur sapendo che Putin sta giocando la carta della riesumazione del conflitto est-ovest), tentare di evitare una Conferenza sul Medio Oriente che si risolva in una guerra senza frontiere ad Hamas, continuare nello sforzo di non appiattirsi sulla posizione di Washington nella trattativa commerciale con la Cina (anche se il blairiano Mandelstam si sta muovendo precisamente in quella direzione).

Si tratta di una nobile, anche necessaria, rincorsa di un'agenda, una scala di priorità, di volta in volta decisa e modificata a piacimento da Washington. Nobile e necessaria, ma non realistica, se rimane limitata entro i confini della diplomazia professionale. Essa può sortire qualche effetto solo se si interseca con la partita di politica interna che per un anno intero determinerà ogni scelta di politica estera della maggiore potenza mondiale. Non si tratta di «interferire», facendo il tifo per i democratici contro i repubblicani. Nelle scelte strategiche di politica estera una candidata sensibilissima agli umori variabili del Paese (e all'antica esigenza degli esponenti del suo partito di dimostrarsi macho almeno quanto i rivali repubblicani) come Hillary Clinton potrebbe non dimostrarsi tanto diversa da George W. Bush. Piaccia o no, sono questi umori variabili dell'elettorato americano a determinare in buona parte quale piega prenderanno gli eventi mondiali nei prossimi mesi e, forse, nei prossimi anni. Siamo costretti a rinviare ad altra data la nostra capacità, in quanto europei, di non subire passivamente l'agenda imposta da Washington. Ciò si verificherà nel momento in cui esisterà un'entità politica europea, in grado di agire nell'interesse e secondo i valori del quasi mezzo miliardo di persone che noi siamo, che non può essere regalata da Washington. Nel frattempo possiamo soltanto chiederci in quale modo gli sforzi diplomatici europei possano eventualmente (la formulazione è volutamente iperprudente) incrociarsi con la dinamica elettorale americana che condizionerà imminenti scelte di politica estera, di guerra e di pace, di una potenza per ora senza rivali, tuttavia sempre meno egemone, in quanto sempre meno capace di agire nell'interesse dell'insieme di cui fa parte (il pianeta) e in conformità con i propri valori.

Quale sia questa dinamica, questo condizionamento sulle future scelte di politica estera di Washington, quale dilemma presenti all'elettorato non è difficile prevedere. L'Amministrazione in carica è oggi in difficoltà su tutti i fronti. I suoi indici di gradimento non raggiungono un terzo dell'elettorato. Pesa soprattutto un giudizio ormai universalmente accettato, salvo dal presidente in carica e dai suoi più diretti collaboratori, sull'esito della guerra in Iraq e, di riflesso, sulla guerra al terrorismo che egli così ha definito e condotto. Però, attenzione, si tratta di un giudizio, soprattutto lo stato d'animo che ne deriva, non ancora consolidato, che può essere fortemente manipolato con parole e atti di chi detiene ancora formidabili leve, quelle della presidenza e dei centri di potere che finora l'hanno sostenuta. È ragionevole pensare che l'esito di quella guerra, le difficoltà riscontrate altrove, la stessa aggressività iraniana che ne costituisce una conseguenza diretta, consiglierebbero un rifiuto di altre avventure militari, una maggiore attenzione verso altri scenari e bisogni interni, una diversa politica economica. Su ciò scommettono un Congresso a maggioranza democratica (dimostratosi finora poco efficace), i candidati presidenziali democratici, mentre il Dipartimento di Stato tenta di adeguarvisi, nei limiti in cui gli è consentito dalla Casa Bianca.

Tuttavia, sarebbe un errore nascondersi che esiste un'altra possibilità, un altro modo di affrontare l'appuntamento elettorale (che qualcuno potrebbe addirittura confondere con l'appuntamento con la storia) dell'Amministrazione in carica; una possibilità che sembra, purtroppo, profilarsi nell'impostazione offerta, da Wasghinton e non soltanto da Washington, ai rapporti con l'Iran che stanno diventando, non a caso e con l'evidente complicità del presidente iraniano in carica, il punto focale della politica mondiale e della stessa campagna elettorale americana. Una possibilità che trova conforto in un'antica legge della politica, esasperata dalla mercurialità dell'opinione interna statunitense, secondo cui chiodo scaccia chiodo: una crisi dall'esito incerto, o decisamente negativo, come quella tuttora in atto in Iraq, viene cancellata da un'altra crisi che, per dimensioni e qualità, esalti il ruolo militare del comandante in capo, previa adeguata escalation di trattative senza esito, sanzioni radicalizzanti ma inadeguate a sortire un risultato a quello del conflitto armato. Con tutte le conseguenze che ne derivano in un mondo in rapida trasformazione, con il difficilissimo compito di sopportare tensioni inedite di natura culturale e sociale. È una partita ancora aperta, che condiziona esiti elettorali ma ne travalica gli schieramenti, perché esistono modelli alternativi, alla portata della stessa Casa Bianca, come quelli libico e nordcoreano, coerenti con l'obiettivo sacrosanto della non proliferazione. Il quale, tuttavia, nel medio e lungo periodo, esige il rispetto della prima parte del trattato (che prevede misure di disarmo da parte dei detentori dell'arma nucleare, come a suo tempo osservò il non dimenticato senatore William Fulbright).

In che modo è possibile incidere su queste dinamiche in atto, a cominciare da quelle scatenate dalla competizione elettorale in pieno corso di svolgimento negli Stati Uniti? Occorre, innanzitutto, la piena consapevolezza delle responsabilità che incombono sugli alleati europei di Washington. Per quanto indeboliti dalle divisioni tra loro, accentuate dal riorientamento, duraturo o meno, della diplomazia francese, essi sono gli unici a poter comunicare credibilmente per comunanza di alcuni valori con settori significativi dell'opinione pubblica americana. C'è un solo modo per usare questa risorsa: affiancare ai giusti accorgimenti diplomatici una trasparente comunicazione sui dati di fondo della crisi decisiva in questa fase. Affermare con chiarezza i costi politici, in ogni scacchiere del globo ma soprattutto per la sicurezza strategica di Israele, di un'avventura militare contro l'Iran. In alternativa, proporre con forza a Washington una trattativa espliciti con Teheran su tutto il contenzioso, non solo quello nucleare, rinunciando a pregiudiziali che, invece, devono costituire uno degli esiti della trattativa medesima (la rinuncia volontaria da parte dell'Iran all'arricchimento dell'uranio che il trattato non esige, ma non al nucleare civile). Rifiutare con fermezza sanzioni fuori dall'Onu, sicuramente inefficaci se non universali, in sede di Unione Europea o altrove (altro che entità numerica della rappresentanza di singoli stati in sede di Parlamento europeo!). Considerare visite di statisti europei a Washington, come quelle imminenti dei presidenti Napolitano e Prodi, come occasioni preziose di comunicazione e spiegazione di simili propositi, in nome di valori comuni oggi più che mai bisognosi di conferma nei fatti.

 


       



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