15 Settembre, 2002
Non c'è l'onda lunga della sinistra
Voto. Lezioni europee o casi nazionali? Salvati ridimensiona Spagna e Francia (da Il Rifromista)
«L'onda lunga, intesa come una nuova fase della sinistra europea,
non c'è»: Michele Salvati, nel day after delle elezioni che hanno
visto la riconferma di Zapatero alla guida della Spagna e
un'affermazione dei socialisti al primo turno delle amministrative
francesi, non solo non vede il «vento nuovo» di cui ha parlato
Veltroni.
Ma non vede neppure una «lezione francese» o una «lezione
spagnola» da applicare al nostro paese. E a Veltroni («Walter si sta
muovendo bene» dice il professore) consiglia: «Bisogna passare
dal "ma anche" all'"e anche": vincono i partiti che si mettono in
sintonia con l'interesse nazionale». Se proprio c'è una lezione da
trarre dall'esperienza dei vari partiti socialisti europei, per
Salvati, è proprio questa, a partire dal modello Sarkozy e dalle sue
scelte «non partigiane».
Anche se Salvati crede poco alle leggi
universali: «Ogni paese fa storia a sé», dice il professore, che usa
un altro metro per analizzare le sorti della sinistra europea: «La
legge Andreotti è nota: il potere logora... chi non ce l'ha. Bene.
In alcuni paesi vale proprio il suo inverso: il potere logora chi ce
l'ha. È il caso di Francia, Germania e Italia dove la gente,
insoddisfatta, cambia più facilmente. In altri, è il caso di Spagna
e Inghilterra, è più facile rimanere al governo per un insieme di
ragioni, dal funzionamento del sistema politico e delle istituzioni
agli indicatori economici. Va quindi valutato caso per caso».
Sulla Spagna dice: «È uno di quei paesi ben amministrati,
caratterizzati da successo economico e da un'immagine pubblica dove
chi governa può sperare di resistere più legislature. Diciamocelo
chiaramente: se Aznar non avesse fatto l'errore madornale di
attribuire la responsabilità della strage di Madrid ai baschi
probabilmente sarebbe rimasto ancora in sella».
Per Salvati Zapatero
ha governato bene, certo, ma una specificità del socialismo spagnolo
proprio non la vede: «Sulla politica economica Zapatero ha seguito
una linea, grosso modo, di continuità con Aznar, anzi ha esteso le
liberalizzazioni anche al settore pubblico. Per quanto riguarda poi
la laicità non va usata una lente tutta italiana. A parte qualche
estremizzazione, come il matrimonio omosessuale, Zapatero è in
sintonia con gli umori dei cittadini spagnoli. E, infatti, non è un
caso che nemmeno il Pp abbia cavalcato la campagna dei vescovi. Il
che vuol dire che Zapatero è stato lo specchio di un paese già
secolarizzato, di cui ha saputo interpretare le convinzioni
profonde.
Non è una novità che i cittadini spagnoli abbiano qualche
diffidenza nei confronti del fenomeno religioso ma soprattutto nei
confronti delle Chiese, sin dai Labari di Franco. Fare un paragone
con l'Italia è completamente inutile: da noi c'è il Vaticano, ci
sono delle specificità nella nostra storia nazionale, in cui un
discorso diffuso a livello popolare su religioni e laicità non è
stato portato avanti dai partiti».
E sul futuro di Zapatero Salvati
vede qualche incognita: «Se dovessi fare una previsione non direi
che Zapatero avrà una vita facile: finora ha avuto una condizione
favorevole, avendo ereditato un boom che viene da lontano. Ma la
Spagna rimane un paese dalla fragile struttura industriale. E
aggiungo: Zapatero dovrà essere abile sui temi delle riforme
strutturali. E sulle Autonomie dovrà mantenere fermezza sui pilastri
della Costituzione del 1978. Sia l'area basca che quella catalana
vogliono dire infatti che la Spagna è uno Stato plurinazionale.
Zapatero dovrà invece dire che la Spagna va all'estero con una voce
sola».
Nemmeno in Francia Salvati ravvisa segni di uno smottamento
elettorale, anzi: «Non mi pare che si siano invertiti i rapporti di
forza nella società. Anche perché il Ps continua a non avere una
linea politica definita, a differenza di Sarkozy. I socialisti, si
sa, hanno un radicamento sociale a livello amministrativo, ma sono
un partito in profonda crisi: devono scegliere tra una via
democratica, di centrosinistra o una via socialista tradizionale. E
finché non emerge una strategia definita non emergeranno nemmeno
nuovi dirigenti dopo la sconfitta degli "elefanti".
Certo il
presidente francese pare che soffra di un calo d'immagine anche se
non seguo il gossip. E, in queste amministrative, il potere ha
logorato chi ce l'ha. Ma la Francia, come l'Italia, è uno di quei
paesi che deve affrontare grandi insoddisfazioni sociali, ed è
difficile che un governo duri più stagioni. Anche se il tentativo di
Sarkozy è ambizioso: presentarsi non come il campione di una parte,
ma di tutti i francesi. Nelle prime righe della commissione Attali
c'è scritto: le cose che proponiamo non sono partigiane, non sono bi-
partigiane, sono semplicemente non partigiane».
E i
socialisti? «Avrebbero dovuto seguire, certo col loro punto di
vista, la linea Sarkozy e invece, non avendolo fatto, o non
essendoci riusciti, come Ségolène, si ritrovano un presidente su
posizioni centriste e con in mano il bandolo dell'innovazione».
Stesso problema strategico, per Salvati, ce l'hanno i
socialdemocratici tedeschi. Afferma il professore: «Guardi, la
Germania è senza dubbio un paese di successo (è il primo esportatore
mondiale), in cui le imprese hanno fatto una politica di
decentramento intelligente. Ma oggi è un paese in crisi, in cui il
tradizionale modello di welfare non tiene, come mostrano i dati
sulla disoccupazione. I lavoratori sentono questa situazione e pure
i sindacati che, a differenza di quelli francesi, sono forti. Su
questo sfondo si colloca il successo della Linke. La Spd deve
scegliere se fare la stampella della Cdu o tornare su posizioni
tradizionali. Mi pare che Beck e gli altri dirigenti, già nello
scorso congresso, abbiano scelto di mettere da parte l'impianto di
Schroeder, a partire dall'Agenda 2000, e di preparare un'alleanza
con la Linke».
Eppure non è la prima volta che la Spd fa parte di
una grande coalizione. Dice Salvati: «Le altre esperienze di grandi
coalizioni si sono affermate in un contesto segnato dalla crescita
economica. Ora il quadro è cambiato, e nemmeno poco. Sindacati e
operai sono arrabbiati come bisce e, di conseguenza, la Spd, perno
del modello sociale tedesco, paga più di altri. E si trova davanti a
un bivio: o ripercorrere sentieri noti o continuare nell'alleanza
con la Cdu su posizioni di debolezza. Continuo a pensare che la
rottura a sinistra sarebbe determinante per perseguire una
prospettiva nuova, che non significa automaticamente grande
coalizione. Ma la rottura, in Germania più che altrove, riguarda
anche il rapporto con i sindacati».
Anche in Inghilterra, secondo Salvati, il socialismo non sta tanto
bene, e si potrebbe chiudere un ciclo: «In Inghilterra, come in
Spagna, chi governa non si logora tanto. Basti pensare alle quattro
legislature della Thatcher e alle tre di Blair. Al fondo c'è una
storia liberale profonda e condivisa, segnata dall'indebolimento di
un sindacato che, a differenza di quello italiano e di quello
tedesco, si è mostrato incapace di governare. Ora, però, il futuro è
incerto: Blair si è consumato nelle sue menzogne, come nel caso
dell'Iraq, e Brown per la prima volta ha di fronte a sé un
avversario competitivo come Cameron. La politica estera è un
problema serio per l'Inghilterra e Brown potrebbe pagare anche su
quel terreno. Tuttavia non va dimenticato lo sforzo di innovazione
compiuto da Blair, non dissimile dall'impianto non partigiano del
Sarkozy di oggi: "Le mie politiche non sono di sinistra o di destra,
ma per il mio paese" diceva Blair. Mi pare che Cameron stia
combattendo sullo stesso terreno. Per questo è competitivo».
 
Fonte Il Riformista
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