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15 Settembre, 2002
Riflettendo (di Maurizio Tiriticco)
L’amica Mariangela Ludovici mi scrive una lunga e circostanziata lettera sulla quale non posso che essere d’accordo ......

Egregio professore…

L’amica Mariangela Ludovici mi scrive una lunga e circostanziata lettera sulla quale non posso che essere d’accordo per tutte le considerazioni e gli approfondimenti sempre giustificati da citazioni più che puntuali. Mi piace farla “girare”, anche se su tre punti, evidenziati in grassetto, mi permetto, a seguire, di fare alcune osservazioni.

Egregio professor Tiriticco,

ricevo i suoi tre ultimi “bollettini” e rispondo.

Vado subito alle cifre che lei conoscerà, ma che è bene ripetere con riferimento alla scuola superiore, perché è quella che conosco meglio.

Il 70% degli studenti ha riportato nella pagella del primo trimestre di quest’anno almeno un’insufficienza. Il 42% nello scorso anno è stato promosso almeno con un debito alla classe successiva. Il 62,4% ha avuto nella pagella del primo trimestre, sempre di quest’anno, l’insufficienza in matematica e/o in lingua straniera. Il rapporto OCSE-PISA vede i nostri ragazzi nella graduatoria delle “conoscenze” avanti solamente ai ragazzi della Turchia e della Grecia, specificando tuttavia che al Centro-Nord dell’Italia si registrano dei dati più positivi che al Sud.

Qualcuno ha insinuato che ciò dipende dallo slogan “meglio una testa ben fatta che una testa piena”, visto che da tempo si dà spazio alla scuola della competenza più che a quella dei contenuti.

Ciò su cui vorrei insistere, egregio professore, sono i tre percorsi insieme, vale a dire la formazione della persona, l’educazione del cittadino e l’istruzione del lavoratore. Ho l’impressione, infatti, che dubbie metodologie didattiche persistano un gradino sopra rispetto alla diffusione delle conoscenze primarie, con il convincimento di “fare” o “rifare” le persone sulla base delle ideologie.

Rifletto sul saper fare e il sapere con le necessarie distinzioni.

Tenendo a mente la lezione che va da Pitagora a Galileo, il quale dietro l’insegnamento del pensatore greco definiva la scienza come purissima matematica e il numero l’essenza delle cose, deduco che le scoperte vere e utili accadono seguendo i principi concettuali e non la semplice raccolta dei fatti. Di conseguenza l’educazione e l’istruzione insieme rafforzano una mentalità e una forma di cultura che non deve sottovalutare il valore della persona. Per restare nel passato, Platone fece scrivere sul frontespizio della sua Accademia questa frase: “qui non si entra se non si è geometri”, ovvero se non si conosce la geo-metria, la misura della terra. Furono i greci a fondare quel principio intramontabile che è l’astrazione, diversa dal pensiero che nomina le cose nella loro singolarità. E’ dunque indispensabile legare tra loro le credenze vere con la conoscenza della causa, ovvero della ragione, ovvero della giustificazione. Temo la prevalenza di quel tipo di apprendimento che finisce per appiattirsi sull’immagine di una generica praticità. Il sapere e il saper fare non si contrappongono, ma la questione verte piuttosto su come far convivere entrambi nel processo di una formazione “graduale”, lontana da scombiccherati progetti di comportamento indotto.

Converrà, egregio professore, che la coscienza pratica, la coscienza teorica, il modo della conoscenza, del linguaggio, dell’arte, del diritto, della moralità, compresi i modelli fondamentali della comunità e dello Stato sono state in origine forme simboliche derivate dal mito. Il pericolo scaturisce, secondo me, proprio dalla eccessiva permanenza della coscienza mitica nell’apprendimento, che può mortificare nell’individuo l’ordine progressivo di una consolidata autonomia. E’ necessario evitare la permanenza dell’ “immaginazione al potere”, per intenderci.

E a questo proposito dico subito che gradirei affiancare alla parola lavoratore quella di ricercatore. Perché il lavoratore, da solo, mi rimanda a chi ancora, in qualche misura costretto a sottomettersi e a negoziare, balbetta le differenze e si arrende al presente, al qui ora, al tutto e subito. Quando impara a separare e a distinguere, il lavoratore, nell’accezione della parola, afferra sì l’intuizione, ma ignorando la rappresentazione, ha difficoltà nei confronti dell’azione concettuale. Mentre il ricercatore è piuttosto chi è volto alla soluzione dei problemi, diventa un esperto vero e proprio, non ha un’infarinatura del più e del meno, non si sposta da una motivazione all’altra senza giustificarla.

Poiché in Italia su 7.742.000 studenti solo circa 1milione e 800.000 si iscrive all’università, spesso senza successo, è ora di cominciare a pensare in che modo, ancor prima della eventuale scelta universitaria, il lavoratore debba percorrere anche la strada del ricercatore.

Altrimenti resta un’immagine della formazione riduttiva e poco moderna.

Non credo che il giornalista di “Repubblica” Mario Pirani prenda gusto nei suoi elzeviri a “gettare fango” sulle nostre istituzioni scolastiche, come lei afferma.

Pirani ragiona da cittadino e da cronista abituato a vedere i risultati e fa le deduzioni al pari di chiunque non ha come unico interesse disputare su quale differenza intercorre tra educare, istruire e formare. Una cosa la esige, però, che i giovani abbiano un avvenire solido cui una scuola seria deve avviarli .Il primo compito che la scuola deve oggi imporsi con urgenza è quello di trasmettere solide basi di conoscenza-competenza, nonché di educare al diritto-dovere della cittadinanza.

Piacerebbe a tanti alzarsi, infilarsi le scarpe e correre verso una scuola dove poter imparare e fare quel che più piace.

La qualità dei contenuti, oltre che un franco rapporto con docenti preparati, sono un buon inizio per sapersi orientare e chiarire a se stessi le scelte appropriate nel mondo della concorrenza, specie se parliamo del confronto con i paesi emergenti dell’estremo oriente, Cina e India in primis. Lei saprà che oggi in Italia le aziende straniere superano le nostre anche del 50%. E il motivo sta nel privilegiare chi ha una marcia in più di conoscenze e di competenze, quando si tratta di scegliere a chi affidare un posto o una poltrona. E’ triste dirlo, ma oggi numerose aziende italiane la selezione iniziale la fanno per raccomandazione, compromettendo così molte possibilità di riuscita.

Su 721.500 insegnanti della nostra scuola pubblica siamo sicuri che almeno una parte è in grado di svolgere un lavoro che qualche volta esuli dalla logica impiegatizia o dalla brama di ciarle, laddove si tratta di fornire una preparazione ad alto livello? A questo proposito vorrei farle presente che molti dei cosiddetti corsi di aggiornamento per i docenti finiscono per essere delle noiose carrellate di notizie già note, ripetute e purtroppo inutili ai fini dell’apprendimento scolastico volto alla professione futura, oltre al fatto che costituiscono spreco di denaro pubblico.

So che è più difficile trasmettere qualcosa di valido ed obiettivi credibili, piuttosto che notizie ereditate e fatte proprie senza la preoccupazione di rinnovarle tramite una scelta utile ai saperi collettivi.

Esiste in Francia la classe “prèparatoire” alle grandi scuole tecniche, classe che è nata per fornire una “cultura generale” di specifico contenuto alla futura classe dirigente. La Francia oggi, si sa, ha molti problemi analoghi ai nostri, ma nel caso dell’istruzione è stata sempre un passo avanti.

Le nostre punte di eccellenza che hanno primeggiato e primeggiano, specie all’estero, nelle materie scientifiche, hanno avuto la fortuna di acquisire una ottima cultura generale in scuole distribuite a macchia di leopardo sul territorio, senza che il nostro “Sistema educativo di istruzione e formazione” si sia mai preoccupato di valorizzare la carriera dei docenti più preparati nelle loro discipline. Anni addietro un noto uomo politico disse che avrebbe coperto d’oro i bravi insegnanti. Il personaggio è caduto e si è rialzato più vispo che mai. Manterrà ora la promessa che non mantenne allora?

Divagazioni a parte, secondo me, più che parlare di area matematico-scientifico-tecnologica al fine della costruzione del lavoratore (ricercatore) e di area storico-geografica al fine della costruzione del cittadino, sarebbe meglio specificare come fonderle, le due aree, nella formazione dell’unico soggetto che è la persona. Molti di noi che hanno studiato nei licei classici dei primi anni ’60, hanno patito, ahimé, tutte le sofferenze della scuola ancora “gentiliana”, ma a pensarci bene, lungi da ogni nostalgia, hanno appreso a leggere, a scrivere e a far di conto meglio di quanto non apprendano oggi i nostri studenti nonostante il prevalere delle metodologie.

E si aggiunga pure, hanno formulato idee civiche e civili con maggiore passione, senza che venissero sottolineate troppe distinzioni di carattere ideologico.

Anche studiando le scienze, per esempio, si può riflettere sul rispetto dell’universo popolato. Ad esempio, è notizia di questi giorni che noi italiani sprechiamo un mare di energia importando cibi. Dal vino australiano alla carne argentina si perdono per strada fino a 10 kg di CO2. Dalla conoscenza non è poi così arduo passare all’educazione, appunto vigilando su quell’humanitas che rimuove ogni forma di abuso e porta diritto alla formazione della persona.

La persona, sostiene Aristotele, è sostanza composta, nella quale l’anima è causa e principio del corpo vivente alla quale si “aggiunge” un’anima intellettuale. Ed è inevitabile riflettere sull’importanza dell’intelletto, questa facoltà analitica della mente, che consente di pensare, di ragionare, di ordinare e di collegare tra loro i concetti. Per dirla alla latina, l’intelletto consente di scegliere e di distinguere (da inter-legere), e non semplicemente di leggere i dati senza sapere come comporli e gestirli.

Da tempo la nostra scuola soffre per metodologie-metodologismi che generano alla fine una cultura poco incisiva e scarsa soprattutto di basilari principi etici, perché manca di passato e non è in grado di progettare il futuro. Nei primi anni del mio insegnamento, quando il “sessantotto” era appena iniziato, ero solita leggere e commentare con i miei ginnasiali le pagine più significative della nostra storia. Si commuovevano i ragazzi ed io con loro, quando risuonavano in aula le parole del “testamento dei centomila morti“di Piero Calamandrei o la narrazione di “16 ottobre ‘43” di Debenedetti. Provi oggi a chiedere a molti giovani il senso di tanto sacrificio e di tanto orrore.

Lo sconforto è che molti insegnanti non si chiedono cosa significa una testa “ben fatta”, come debba essere“una testa ben fatta” e su quali principi si ha anche il dovere di “rifare le teste”, principi adatti a formare l’individuo adatto a vivere in un contesto mondiale tanto difficile quanto minaccioso su più versanti. Sarebbe oltremodo onesto se non consegnassimo i singoli saperi nelle mani di sedicenti “intellettuali”o, quel che è peggio, di saccenti “eruditi”.

La persona, ne converrà, risponde ad un’idea molto speciale nell’insieme delle culture, allora, e in questo lei ha ragione, cominciamo a confrontarci come gente di cultura senza divisioni ed opportunismi, peggio se per interesse di politica spicciola. Ecco, partire dai filosofi antichi aiuta a dialogare ed evita di generare assurde convinzioni. Nel mondo attuale, da una parte vengono spesso a mancare le certezze essenziali, la società vede messe in dubbio le fondamenta stesse del vivere insieme e le nuove generazioni temono le sfide dell’esistenza, ma dall’altra parte, sono convinta, circola un grande desiderio di sapere e di capire. Dunque è ben poca cosa una istruzione-educazione che si limita a nozioni sterili o ad informazioni cervellotiche, tralasciando le risposte sulla libertà, sulle regole dei comportamenti di vita giornalieri, sulla forza del carattere che prepara ad affrontare anche le prove più difficili. Educare è formare all’uso corretto della conoscenza e della conseguente responsabilità verso se stessi e verso gli altri. L’apprendimento di idee, stili di vita, comportamenti sociali di varia natura influiscono sulla formazione. Bisogna tenere a mente che la società non è un’astrazione e, pur nei continui cambiamenti, è regolata da leggi inderogabili. Dunque mettiamoci ad analizzare i modi anche assai differenti di “fare scuola”, il che significa certo porre questioni che devono infine dirigersi verso due principali direzioni: che cosa vuol dire istruire e che cosa vuol dire educare, per essere coniugati senza pregiudizi. Il confronto stimola la dissonanza, ma monetizza anche alcune categorie e nozioni essenziali di comportamento comune. Il confronto cerca di capire come insiemi culturali espressi in vario modo reagiscono alla serie di interrogativi che si vanno sviluppando, oltre che agli elementi concettuali via via scoperti. Da sperimentale il confronto deve diventare costruttivo a tutto campo.

Avrà compreso che mi riferisco ad una eccessiva quanto dannosa litigiosità tra gli “esperti” in materia scolastica e non solo. Da troppo tempo i responsabili hanno l’abitudine di vivere e soprattutto di pensare in modi separati, con i pericoli che abbiamo sotto gli occhi. Bisogna cooperare essendo ognuno convinto che, addentrarsi nel sapere e nei problemi degli altri è tanto indispensabile quanto sviluppare in profondità la questione dell’istruzione-educazione di cui non si deve pretendere di essere l’unico e quasi profetico interprete. Ben venga l’autonomia delle scuole, senza che si trasformi in autoreferenzialità, come è accaduto da Berliguer alla Moratti.

Il bolero e il tai-ki e quant’altro del genere entra nelle nostre aule si possono apprendere anche nei numerosi centri specializzati ad offerte stracciate né sono indispensabili per educare al senso civico. Ma, ad esempio, la scrittura corretta la dobbiamo imparare ed insegnare, ripetendola e facendola ripetere fino alla consuetudine, perché scrivere bene incita a saper pensare con coerenza, dà slancio per spiegarsi agli altri, dà sicurezza e forza interiori. Scrivere correttamente è una qualità importantissima in ogni attività professionale, oltre che nella vita privata. Se la leva dell’educazione è tuttora il nostro tallone d’Achille, ed educare è veramente faticoso, come lei giustamente sostiene, ciò dipende dalla mancata volontà d’incontro tra operatori del settore spesso ancorati ai meschini interessi, alle singole bassezze, alle ambizioni spicciole, alle modeste gestioni e all’inerzia nascosta dalla supponenza, con perdite scellerate di tanti intelletti.

Eugenio Scalfari, di recente ospite del festival della filosofia all’Auditorium, ha sottolineato che siamo in una palude culturale e politica generata dal “Sessantotto” che è stato “una rivoluzione non riuscita”. Ricordando il suo libro “L’autunno della repubblica”, ha poi paragonato una rivoluzione ad un fiume in piena che straripa e che ha due possibilità, o rientrare nel suo letto e lasciare un terreno fertilizzato, o scavarsi un secondo letto. Però può non fare né l’uno e né l’altro e fermarsi per diventare una palude. Allora “porterà solo malaria e zanzare”. Voglio credere che non siamo già arrivati a tanto.

A me piace immaginare non piacevoli convegni con break di saluto, ma tanti piccoli laboratori di professori-ricercatori che aprono le loro porte al realistico e tollerante confronto per il bene di tutti.

Per uscire dalla crisi bisogna saper ascoltare molto, poi mettersi in moto fra pensieri spesso lontani tra loro, senza intrecciare sottili discussioni d’accademia. A questo proposito aveva ragione La Rochefoucauld quando temeva che “chi si occupa troppo delle piccole cose diventa incapace delle grandi”.

Il cittadino che manda i figli a scuola esige, almeno così si spera, di conoscere e di valutare qual è il modo più efficace per garantire loro un futuro che sia lontano dalla precarietà, dall’ingiustizia, dal valore del denaro conquistato ad ogni costo e (forse) anche dai predicatori di falsi paradisi, quelli, per intenderci, che sono tornati senza argine alcuno a vagheggiare la scuola delle “Tre I”.

Sua affezionatissima Mariangela (che apprezza tutti i suoi interventi e che si scusa, oggi, di averla intrattenuta con i suoi pensieri sparsi)

Le mie osservazioni

Mariangela sostiene che, quando parlo di lavoratore, è opportuno aggiungere la voce ricercatore. Ovviamente sono d’accordo perché nel mio pensiero i due concetti sono strettamente legati. Il fatto è che nella nostra tradizione, tutta italica, quando si parla di lavoratore, si pensa sempre a colui che esercita mansioni di tipo manuale, e, tutt’al più, di tipo tecnico, e non si pensa mai che anche un avvocato, un chirurgo, un architetto, un docente universitario sono anch’essi lavoratori. In effetti, anche il contadino analfabeta di un tempo, ma ovviamente colto a suo modo in un determinato contesto socioculturale, ricercava come e perché il suo lavoro potesse produrre meglio e di più.

Oggi, nella società della conoscenza nessuno può più pensare che chi lavora – a qualsiasi livello di responsabilità – non debba anche ricercare, quindi apprendere giorno dopo giorno e per tutta la vita. Non c’è processo lavorativo, dal cuoco al commercialista, dall’acconciatore al pubblicitario, che non richieda una rivisitazione continua di ciò che si fa e si produce! Lavorare e ricercare sono azioni costantemente interagenti. Un lavoro senza ricerca non avrebbe mai prodotto la costante evoluzione dei processi e dei prodotti che interessa tutti noi, oggi soprattutto, a seguito dell’impennata degli ultimi due o tre decenni.

A proposito del fatto che molti studenti che hanno studiato nei licei classici dei primi anni ’60, pur se hanno patito tutte le sofferenze della scuola ancora “gentiliana”, hanno però appreso a leggere, a scrivere e a far di conto meglio di quanto non apprendano oggi i nostri studenti nonostante il prevalere delle metodologie, mi permetto di osservare che quegli studenti costituivano già l’esito privilegiato di una pregressa selezione sociale. Io ho frequentato i cinque anni del ginnasio e il liceo classico negli anni ’40, ma quanti compagni di quinta elementare (allora costituiva il limite dell’obbligo di istruzione) ho lasciato indietro? E’ ovvio che una scuola severa, fatta allora per pochi alunni già selezionati “per famiglia” e “per censo” e destinati alle “professioni liberali”, rispondesse al suo assunto. I compagni di quinta elementare che ho lasciato indietro certamente non sono diventati lavoratori/ricercatori, ma lavoratori tout court, nell’accezione più riduttiva possibile! Dovrebbe essere ovvio che una scuola che si è impegnata con la svolta dell’autonomia a garantire a tutti il “successo formativo” non può non essere un’altra scuola! Ed a tutt’oggi quest’altra scuola ancora non l’abbiamo costruita! Non è un caso che da sempre sostengo che l’istruzione, l’educazione e la formazione devono costituire la scelta prima e fondamentale della nostra politica interna (lo sostiene lo stesso dpr 275/99 sull’autonomia). A questo punto interviene la mia critica ai mille Pirani che blaterano contro la pedagogia! Perché i mille detrattori non ci dicono come operare per garantire a ciascuno il “suo” successo formativo!? L’insistere sui contenuti, sul rigore, sulla severità, sul bocciare chi “non ha voglia di studiare” si può anche fare! Sarebbe la cosa più facile del mondo gettare fuori dal Sistema educativo di istruzione e formazione il 90% dei nostri ragazzi (e mettiamoci anche il 100% degli immigrati). Garantiremmo la formazione di una pattuglia di dirigenti e lasceremmo tutti gli altri alla mercé dei Grandi fratelli e delle interminabili coppe calcistiche! E la prossima indagine Pisa ci getterà all’ultimo posto!

Ed infine, sulla questione delle metodologie-metodologismi. Mariangela non pensa che, quando leggeva con i suoi studenti Calamandrei non adottasse, anche se implicitamente, un metodo? Nella mediazione didattica un metodo c’è sempre, che se ne abbia o meno la consapevolezza. La lezione cattedratica è un metodo, direttivo quanto si voglia, ma lo è. E non ho nulla contro la lezione cattedratica: quante volte nella vita siamo esposti ad informazioni discendenti (una conferenza, una relazione, un comizio)?! Abituarsi ad ascoltare per un tempo lungo, a cogliere i concetti chiave, a memorizzare, et al, è estremamente importante. Ma la vita di relazione, di lavoro… e di ricerca, è fatta anche di tante altre modalità! E allora? Perché nella interazione didattica non adottare le mille modalità con cui si interagisce nella vita con le cose, gli eventi, i fenomeni, le persone, i problemi, e via dicendo? Insomma la questione non è “scuola seria eguale scuola senza metodo – scuola non seria eguale scuola con metodo”. Come mai il metodo Montessori ha permesso un balzo in avanti nell’apprendimento dei bambini tutti, con e senza difficoltà? Del resto Mariangela è troppo intelligente e colta per non sapere che certi affondi del comportamentismo, del cognitivismo, del costruttivismo, del connettivismo, dei neuroscienziati di oggi sui modi, forme e tempi del conoscere e dell’apprendere non sono affatto divagazioni di bassa lega.

Concludendo, la questione dell’istruire, educare, formare in questa società complessa, oggi e domani, tutti e non uno di meno, e per tutta la vita è una questione assolutamente cruciale. Se la vogliamo affrontare e risolverla, rimbocchiamoci le maniche! Se vogliamo far finta che non esista, continuiamo a pensare che occorre tornare alle tabelline, perché… una volta sì, quando gli studi erano classici e severi, la scuola funzionava. E continueremo a chiudere gli occhi sui “dispersi” e, per giunta, a colpevolizzarli! E il contesto sociale continuerà ad affondare lentamente, come di fatto sta avvenendo. E non è un caso che il tema sicurezza sia all’ordine del giorno. Ma che cosa c’è a monte? Interroghiamoci, prima di barricarci nelle case ed affidarci alle ronde padane!

Il giorno anniversario della Liberazione – 2008
Maurizio Tiriticco

 


       



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