15 Settembre, 2002
Paderno Ponchielli
Un borgo rurale in mezzo alla campagna cremonese
Paderno Ponchielli
Un borgo rurale in mezzo alla campagna cremonese
Se questo soltanto apparentemente insignificante
borgo rurale in mezzo a campi ben coltivati
aveva portato il nome Paderno Cremonese a
cavallo tra 800 e 900, un motivo, stante
nella distinzione, sembra evidente. Nel milanese
conosciamo Paderno Dugnano, nel trevigiano
Paderno del Grappa, nel bresciano Paderno
Franciacorta, per concludere il probabilmente
non completo elenco con Paderno d’Adda, in
provincia di Lecco. Chi sa se hanno subito
tante trasformazioni del nome quante ne ha
viste il “nostro” Paderno, finito con l’essere
denominato – già “Fasolaro” e “Ossolaro”
– in onore del suo celebre figlio, Amilcare.
Poche le tracce visibili del suo passato,
della fortificazione, del nucleo abitativo
di epoca romana attorno al 40 a.C. (frammenti
di lapidi e qualche centinaio di monete),
della presenza dei longobardi, della chiesa
e del monastero di inizio millennio, delle
dominazioni di imperi e di feudi. Ci fu il
castello ma è stato demolito all’inizio del
900. Nulla spicca ormai nella ricca campagna
irrigata dove il tempo sembra essere scandito
soltanto dal calendario della terra e la
quale talvolta subiva l’irruzione dei soldati
di una parte o dell’altra, a riscuotere il
“dovuto” approvvigionamento. Ma i soldati
– di Cremona o di Venezia, spagnoli o austriaci
– arrivavano e se ne andavano, lasciando
immutata la struttura sociale in quella che
si sviluppò come sua “roccaforte”, la cascina;
la cascina “fabbrica contadina” sorvegliata
dalla casa padronale, più curata, talvolta
maestosa, ma a contatto con il mondo della
fatica dei campi.
Di povertà consolidata e di ricchezze accumulate
è testimonianza il borgo dove il tempo e
lo sviluppo non hanno cancellato i segni
dell’antico tessuto urbano contrappuntato
dalla distinzione sociale di cui evidenti
manifestazioni sono alcune aristocratiche
dimore, come quella del marchese Giovanni
Battista Jacini, figura senz’altro non comune
– per cultura e orizzonti – nel panorama
dell’epoca, padre di Stefano (creato conte
nel 1880), presidente della commissione d’inchiesta
parlamentare sulle condizioni dell’agricoltura
in Italia dal 1877 al 1884 e autore della
tutt’oggi nota e citata relazione finale.
Sulla scena della seconda metà dell’800 acquista
peso anche la ricca borghesia terriera, con
aspirazioni di eguagliarsi, negli stili di
vita, alla borghesia delle grandi città italiane
ed europee. Se prima la cultura cosiddetta
“alta” si infiltrava attraverso processi
secolari e lasciando piccoli segmenti nella
cultura fondamentalmente orale delle classi
popolari, la “rivoluzione borghese” (e la
“cultura di massa” in embrione) ha risonanza
più immediata e più incisiva. È così che
anche l’opera lirica esce dai teatrini dei
“signori” per conquistare platee vaste e
polimorfe; è così che può nascere e distinguersi
un autore “popolare” come Amilcare Ponchielli.
Il Paderno di oggi si identifica – a partire
dal nome – con il suo musicista. La casa-museo
conserva i ricordi materiali della sua vita,
la chiesa di S. Dalmazio custodisce l’atto
di nascita e l’organo inaugurato dal Maestro,
costruito nel 1873 in sostituzione allo strumento
su cui fece i primi esercizi. Il palazzo
della famiglia Jacini è lo scrigno del fortepiano
usato dal giovane Ponchielli per intrattenere
gli ospiti del marchese, prima di spiccare
il volo.
Amilcare Ponchielli e il suo tempo
Visse in due “epoche”, Ponchielli. Visse
in un’epoca di transazione, di enormi cambiamenti
e di conflitti politici; visse i tempi dell’entusiasmo
risorgimentale e delle attese deluse; visse
la nascita di una borghesia inconcludente
e insensibile agli effetti sociali del capitalismo.
Aveva sotto gli occhi la miseria contadina,
contraltare di una bucolica “civiltà agreste”,
quanto la nascita di una miseria “metropolitana”,
suburbana, proletaria. Alle contraddizioni
della società borghese, dell’industrializzazione,
la risposta politica, sociale e culturale
non tarda ad arrivare. La coscienza antiborghese
avrà espressioni letterarie, artistiche di
varia natura; a volte guardano indietro con
nostalgia, altre volte aprono prospettive
nuove, condivise dal nascente movimento operaio.
Da un sentimento di impotenza dell’intellettuale
a porsi “guida” nei cambiamenti sociali,
non a caso proprio nelle città precocemente
industrializzate e “disumanizzate” di Torino
e Milano, nasce una tendenza principalmente
letteraria con la quale Ponchielli entrerà
presto in contatto.
Se il termine “bohemien” è entrato nell’uso
comune con un significato largamente condiviso,
“scapigliato” è relegato in un ambito “dotto”,
almeno in riferimento alla sua accezione
originale, descritta dal suo “inventore”,
lo scrittore e giornalista Carlo Righetti,
alias Cletto Arrighi. «La Scapigliatura è
composta da individui di ogni ceto, di ogni
condizione, di ogni grado possibile della
scala sociale. Proletariato, medio ceto e
aristocrazia; foro, letteratura, arte e commercio;
celibato e matrimonio, ciascuno vi porta
il suo contingente, ciascuno vi conta qualche
membro d’ambo i sessi; ed essa li accoglie
tutti in un complesso amoroso, e li lega
in una specie di mistica consorteria, forse
per quella forza simpatica nell’ordine dell’universo
attrae fra di loro le sostanze consimili.
La speranza è la religione degli scapigliati,
che i contemporanei italiani si ostinano
a chiamare i boemi, con orribile gallicismo;
la fierezza è la loro divisa; la povertà
il loro carattere essenziale. Ma non la povertà
del pitocco, che stende la mano all’elemosina,
bensì la povertà di un duca a cui tocca di
licenziare una dozzina di servitori, vendere
molte coppie di cavalli e ridurre a quattro
le portate della sua tavola, perché, fatti
i conti coll’intendente, ha trovato di non
avere più a questo mondo [...] che cinquantamila
lire di rendita.» (1862)
Insomma: fine del sacro ardore risorgimentale,
del romanticismo patriottico, della fiducia
nella tradizione borghese. Insoddisfazione,
sconforto, terrore del provincialismo. Manzoni
è il passato. Verdi è il passato. Si guarda
verso “l’occidente” come se il sole dovesse
spuntare da quella parte.
Il punto di contatto del musicista Ponchielli
con la tendenza della “scapigliatura” è rappresentato
da amici scrittori – librettisti come Arrigo
Boito (che scriverà ma firmerà con pseudonimo
il libretto di Gioconda). I nuovi “mecenati”
sono le case editrici (quella di Ponchielli
è la Ricordi) che perseguono, insieme a principi
di mercato, anche precise linee che possono
essere definite di “politica culturale”.
I teatri sono promotori del “divertimento”
borghese, “operatori” di un mercato culturale
in un epoca che vide il furore e il tramonto
del melodramma dell’800 italiano.
31 agosto1834, Paderno – 16 gennaio 1886,
Milano
C’è chi sostiene che a far avere un posto
al Regio Conservatorio di Milano al giovanissimo
Ponchielli sarebbe stato il marchese Jacini,
grande estimatore delle sue doti. C’è chi
parla di un difficile esame di ammissione
superato. Ad ogni modo, può ben definirsi
un inizio carriera brillante quello che vide
il figlio di un modesto bottegaio di paese,
all’età di nove anni, ad essere ammesso in
un tale prestigioso consesso.
Padre bottegaio ma anche musicista che fa
da primo maestro al figlio, iniziato alla
musica sui tasti di un vecchio organo nella
chiesa di S. Dalmazio. Sarà parso anche al
padre un ragazzo promettente se lo affida
presto ad un vero maestro, nella persona
dell’organista Francesco Gorno di Casalbuttano.
Poi, nel 1854, il diploma al Conservatorio.
Ma, per il momento, gli toccherà abbandonare
la grande città.
È organista nella chiesa di S. Imerio, a
Cremona, sostituto maestro nel Teatro Concordia
(Ruggero Manna ne è “concertatore stabile”),
e se può dedicarsi anche alla composizione
(al di là dell’incarico datogli dal Manna
per alcuni brani de La Vergine di Kermo)
lo deve non ad una istituzione musicale ma
al “mecenatismo artigianale”: è il sellaio
Bortolo Piatti a finanziarlo. Le prime opere
non riscuotono il desiderato successo; consolazione
non è ma garantisce un reddito la direzione
delle bande musicali di Cremona e di Piacenza.
A nulla gli valse essere primo in graduatoria
per la cattedra di contrappunto al Conservatorio
di Milano, il posto sarà assegnato, nel 1865,
ad un altro. Ed ha già – o ha soltanto –
trentun anni.
L’anno del primo vero successo è il 1872:
una versione completamente riveduta de “I
promessi sposi” trionfa al Teatro Dal Verme
di Milano. La casa editrice Ricordi gli commissiona
un’opera: sarà un altro successo, questa
volta al Teatro della Scala, “I Lituani”.
E Ponchielli sposa l’interprete di questa
opera, Teresa Brambilla.
Così, sulla quarantina, Ponchielli è un autore
avviato al successo mondiale, musicista riconosciuto
negli ambienti “accademici”; ottiene la cattedra
al Conservatorio (avrà tra gli allievi i
grandi di un prossimo futuro, Giacomo Puccini
e Pietro Mascagni) ed è maestro di cappella
della Chiesa di S. Maria Maggiore a Bergamo.
È l’erede della scena a lungo dominata dal
genio che fu Giuseppe Verdi.
Tanto successo ottenuto grazie al talento,
alla capacità di inserirsi nella migliore
corrente europea di rinnovamento musicale
e anche alla tenacia, alla costanza piuttosto
che ai colpi di fortuna. Tenacia nella ricerca
dell’espressione perfetta; opere incominciate
e lasciate a lungo in sospeso, opere riscritte,
meticolosamente perfezionate. Perfezionismo
e forse qualche insicurezza. L’appagamento
del successo insieme al peso della responsabilità.
E Ponchielli, grande talento ma anche buon
“artigiano”, a lungo perfeziona le sue opere
le quali, nell’ultimo periodo, incontrano
immancabilmente il favore del pubblico e
quasi sempre anche quello della critica.
Viene applaudito il suo “bel canto” nel solco
della tradizione operistica italiana quanto
il suo innovativo estro compositivo orchestrale.
Era una morte davvero prematura, la sua,
a soli 51 anni. Una broncopolmonite lo costringe
ad abbandonare l’allestimento de La Gioconda
nel teatro di Piacenza. Torna a Milano per
guarire ma la sua tenacia, in questa battaglia,
non è sufficiente. Si spegne il 16 gennaio
1886.
Opere
È davvero significativo il fatto che Amilcare
Ponchielli avesse scelto il testo – nel tempo
divenuto “sacro” – de I promessi sposi di
Manzoni per la prima sua opera (1856). Ma
insieme ad altre due a seguire (La Savoiarda,
1861 e Roderico, Re dei Goti, 1863) viene
accolta senza grande entusiasmo. Temi (o
libretti) “sbagliati”? Ponchielli però deve
credere molto nella sua intuizione se dopo
più di dieci anni riprende in mano la sua
prima opera e, rivisto il libretto dallo
“scapigliato” Emilio Praga (1839-1875), la
ripropone al Teatro Dal Verme di Milano.
Ed è un grande successo.
I Lituani viene composto su commissione della
Casa Ricordi. Curiosamente – ma forse altrettanto
comprensibilmente – questo appoggio così
prestigioso sembra non facilitare il lavoro
ma a caricare l’autore di un peso assai sentito
delle aspettative nei suoi confronti. Mentre
procede lentamente con I Lituani, scrive
anche la musica del balletto Le due gemelle
e a Lecco, nel 1873, viene rappresentato
lo scherzo comico in un atto Il Parlatore
Eterno. Quando finalmente I Lituani arriva
sulle scene della Scala (1874), a Ponchielli
viene tributato un applauso unanime. Eppure,
anche questa opera sarà ripresa successivamente
con un altro titolo (Aldona), come è capitato
a La Savoiarda (Lina, Milano 1877).
Il 1876 è l’anno de La Gioconda che ha per
librettista un altro “scapigliato”, Arrigo
Boito (il quale firma però con lo pseudonimo
Tobia Gorrio). E il nome di Ponchielli si
legherà indissolubilmente alla danza attraverso
un brano dell’opera – diventato più famoso
dell’opera stessa – noto con il titolo La
danza delle ore.
E anche La Gioconda, nonostante il successo
di pubblico e di critica, vedrà una seconda
versione, nel 1880. Pare evidente la difficoltà
di Ponchielli a considerare definitiva una
partitura; tutto è migliorabile, tutto è
sempre lontano dalla perfezione. Alcune opere
non porterà mai alla presentazione, Il sindaco
Babbeo è addirittura materialmente perduta,
Bertrando de Bornio (1858) e Olga restano
incomplete per scelta; I Mori di Valenza
sarà completata da Arturo Cadore ma questa
volta colpevole fu la morte dell’autore.
Nel 1880 viene rappresentate l’opera Il figliuol
prodigo, nel 1885 Marion Delorme, riscotendo
entrambi grande successo di pubblico. La
critica invece accoglie Marion Delorme con
una certa freddezza; Ponchielli la ripropone,
al Teatro Grande di Brescia, in una versione
riveduta.
Il mondo del melodramma – pubblico, critica,
direzioni teatrali – fu pronto presto a tributare
grandi riconoscimenti a Ponchielli “compositore
d’Italia”, come fu sollecito ad accogliere
i nuovi, accantonando il nostro. Ma molte
sue opere resistono alle ondate delle mode
e, particolarmente oggi, una attenzione più
“raffinata” sta riportando alla luce quello
che nell’opera di Ponchielli è di immortale
valore.
La casa – museo di Ponchielli
Sarebbe una casa d’angolo qualsiasi, ovvero
una parte di essa, con una tabaccheria che
s’affaccia sulla piazza, se ad avervi licenza
di rivendita sali e tabacchi e merci di generi
vari non fosse stato il padre di Amilcare
Ponchielli. Ora, dal 1960, naturalmente,
è museo, di proprietà del Comune. È lo scenario
degli anni giovanili del musicista a custodire
le testimonianze della sua vita e del suo
lavoro.
«Il materiale esposto nelle bacheche interne
– ci informano le pagine web dedicate al
museo sulla rete civica di Cremona – tende
a sviluppare un percorso cronologico sulla
vita e le opere del Maestro Amilcare Ponchielli
e comprende: documenti autografi, fotografie,
medaglie, musica, libretti d’opera delle
prime rappresentazioni e delle riprese con
data ed elenco degli interpreti formano il
corredo a spartiti per canto e pianoforte
delle opere conosciute e meno conosciute.
Ed ancora: la sciabola da parata che era
obbligato a portare con la divisa da capobanda;
una agenda tascabile piena di annotazioni
private e musicali; le lettere agli amici
ed altri cimeli del periodo immediatamente
successivo al diploma del Conservatorio sono
esposti assieme al pianoforte, alla scrivania,
alle onorificenze Reali, al passaporto per
la Russia zarista e ad altri del periodo
in cui il Maestro era già diventato famoso.
Partiture manoscritte, spartiti stampati
della Casa Ricordi e quelli stampati abusivamente
dalla Casa Lucca, appaiono assieme a partiture
per banda e orchestra oggi introvabili, come:
Cantata a Donizetti, Fantasia Militare, Inno
al Gottardo, Scena Campestre, che assieme
al ballo Le due gemelle e ad altre decine
di romanze e musiche da camera, sono il patrimonio
del Genio Ponchielliano.
Locandine e manifesti d’opera sono appesi
a piena parete assieme a quadri e riconoscimenti
che le varie associazioni, bande musicali,
artisti lirici e gli ultimi allievi di Conservatorio,
hanno voluto lasciare a testimonianza della
stima per il grande maestro.
Un primo nucleo del materiale esposto proviene
dalla donazione al Comune avvenuta nel 1934
da parte dei figli e da un ex allievo del
musicista, in occasione delle celebrazioni
del centenario della nascita.
Successivamente il materiale è stato ulteriormente
incrementato da acquisti presso librai antiquari,
dalla cessione di una consistente collezione
e da varie donazioni private.
Il Museo svolge attività didattica e divulgativa
con iniziative idonee a fare conoscere l’importanza
del repertorio e della figura artistica del
maestro Amilcare Ponchielli, promuovendo
conferenze, concerti lirici ed incontri musicali.
È dotato di un archivio fonologico con registrazioni
normali e “live" su dischi, compact,
nastri audio e video delle opere liriche,
delle selezioni, di brani musicali, di romanze
ecc.; ha inoltre un archivio-raccolta di
libri biografici ed articoli di giornali
dall’800 in poi, riguardanti il Maestro e
le sue opere.»
Il «Teatro Ponchielli»
Ettore Sacchi, l’allora direttore del giornale
La Provincia, dopo la morte del musicista,
nonostante le resistenze al cambio di intitolazione
– le quali, d’altronde avevano qualche fondamento
burocratico-legale – continuava a chiamarlo,
imperterrito, Teatro Sociale Ponchielli.
Ma il grande teatro di Cremona – scenario
e platea dei primi tentativi come dei successi
di Ponchielli – in realtà si chiamò, fino
all’11 marzo 1907, “Teatro Concordia”.
Non così agli inizi. Al primo levarsi di
sipario, il 28 dicembre 1747, è “Teatro Nazari”,
in onore del “benefattore” (poi proprietario)
grazie al cui impegno finanziario – aggiunto
alla donazione del terreno da parte del marchese
Giuseppe Lodi Mora e al sostegno del conte
Pallavicino – si era potuto affidare la costruzione
al cremonese Giovanni Battista Zaist. È nel
“Nazari”, dunque che Mozart assiste a «La
Clemenza di Tito» del Valenti (20 gennaio
1770), prima che mutasse in “Teatro della
Società” (la Società di dodici Cavalieri,
ovvero dei palchettisti), nel 1784.
E non sono proprio le stesse mura le accolsero
Mozart a fare da cornice alle rappresentazioni
delle opere di Ponchielli. Come capitava
spesso ai teatri settecenteschi, l’11 settembre1806
un incendio distruggeva l’originale struttura,
ricostruita poi con grande maestria dall’architetto
Luigi Canonica. Nasce così il “Teatro Concordia”,
un teatro progettualmente all’avanguardia
che non ha nulla da invidiare alla Scala.
Ma non passano due decenni e si rende necessario
l’intervento degli architetti Faustino Rodi
e Luigi Voghera perché le fiamme – una sera
di gennaio 1824 – non avevano risparmiato
nemmeno quel gioiello.
Intanto la compagnia – rovinata – di Gerolamo
Micheli si trasferisce al Teatro Filodrammatici.
Il melodramma ritorna sul palco del “Concordia”
in concomitanza con la Fiera, a settembre;
va in scena La donna del lago di Gioacchino
Rossini. Ma in seguito – pur avendo in cartellone
le opere in voga in quel momento di Cherubini,
di Cimarosa, di Donizetti e di altri – “incontrastato
dominatore” delle scene sarà Giuseppe Verdi,
il quale approda al “Concordia” nel 1844
con l’Ernani. Ed è un periodo in cui il Teatro
è spesso “teatro” anche delle polemiche e
delle contestazioni politiche (Austria sì
– Austria no); gli ideali del Risorgimento
riecheggiano anche nel melodramma, il teatro
lirico va oltre il “divertimento borghese”.
Nel 1856 è la volta del debutto di Amilcare
Ponchielli.
Gli Amministratori del Comune di PADERNO
PONCHIELLI
Sindaco (eletto nel 2004): MARI GIOVANNI
La Giunta:
AZZINI GIUSEPPE
CANEVARI GUIDO
AZZINI SABRINA
Il Consiglio:
BERGAMASCHI PAOLA
CARLOTTI ANTONELLA
GEREVINI MARIA GRAZIA
GUINDANI GIORGIO
LOSI STEFANO
OGGIANO ANTONIO
STRINATI CRISTIANO
TORRESANI MASSIMILIANO
TORRESANI MARIA CRISTINA
cremona 25 febbraio 2006
 
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