Gli zampognari di Scapoli: il Festival Internazionale della Zampogna e l’“essenza 
sonora” dell’uomo
Mostra fotografica a cura di Vittorio Dotti
Libreria Ponchielli – Cremona
dal 13 marzo al 1 aprile 2006
 
La musica è il sole umido
che canta l’aurora 
(Marius Schneider)
Me voglie fà nu cante ‘n cim’a stu colle,
Voglie fa rintrunà tutta la valle
(sonetto molisano raccolto a Tavenna)
La forza della procreazione,
la prima estasi di vivere
e la gioia di fronte alla crescita
trasformarono il silenzio della contemplazione
nel suono
(canto Maori)
(…) la natura rinnova agli occhi dell’uomo i fasti
del suo incommensurabile equilibrio. E’ dentro
questo equilibrio che si muove ogni essere e ogni
cosa. L’equilibrio che ci riguarda è direttamente
legato all’uomo; anzi devo dire che il suono è
anche creato in lui.
(Franco Izzi, conservatore del folklore scapolese)
I – Uno sguardo storico-antropologico ed etnomusicologico
A) Storia, architettura e paesaggio - Innominato sulle guide 
turistiche o disbrigato con svelti accenni cursori, l’abitato di Scapoli (alt. 
611 s.l.m.; sup. 16 kmq.; abit. 945) sorge alle pendici meridionali delle 
Mainarde, nell’Alta Valle del Volturno, pochi chilometri a nord-ovest di Isernia.
Nel Chronicon Volturnense (principale fonte documentaria dell’Abbazia 
benedettina di San Vincenzo al Volturno) si afferma che fino all’VIII secolo il 
sito dell’odierna Scapoli consisteva in un lussureggiante manto boschivo. Al 
volgere dell’anno Mille, nell’epoca detta dell’incastellamento – in cui vennero 
fondati molti paesi dell’Alta Valle volturnese –, si registra la nascita del 
Castrum Scappili. Sempre nel Chronicon vien detto che intorno al 981 
l’abate Giovanni “homines conduxit et habitare fecit in Castro Scappili”. 
Furono dunque i monaci di San Vincenzo, insieme ai primi abitanti del territorio 
(di cui vengono menzionati i nomi: mastro Lupo e mastro Giovanni, coi loro 
figli; Varvato e Azzo Cantoni, coi fratelli ed eredi), che resero coltivabile 
questa terra altrimenti inospitale. 
Le indagini toponomastiche hanno evidenziato alcune possibili origini del 
nome: 1) essendo scapoli (non ammogliati) i primi dissodatori; 2) dal 
lat. scopulus (scoglio, rupe), oppure da scapulae
(spalle, declivio di monte); 3) dal nome dei primi affittuari della zona: 
Scaptilus Sculdais.
Nel periodo della dominazione angioina, Scapoli appartenne all’Abruzzo 
Citra (Chieti). Nella seconda metà XVI sec. fu proprietà della famiglia 
Bucciarelli, poi nel XVII fu aggiudicato ad Innico di Grazia, barone di Cerro, 
che lo cedette a Tommaso Calvo. Gli ultimi signori di Scapoli furono i Cestari, 
un ramo della famiglia Ayerbo d’Aragona, alla fine del XVIII secolo. In seguito, 
il paese fece parte della Terra di Lavoro e soltanto nel 1861 entrò nel 
territorio di Campobasso (attuale capoluogo della Regione Molise). Dal 1970, 
infine, rientra nella provincia di Isernia.
Le vicende storiche che ho brevemente delineato non distinguerebbero Scapoli 
da tanti altri villaggi dell’alto Volturno. Ma c’è un episodio, accaduto durante 
il secondo conflitto mondiale, che impone il paese di cui ci stiamo occupando 
alla ribalta storiografica nazionale: fu qui che, nella primavera del 1944, si 
costituì il Corpo Italiano di Liberazione (CIL) che, sotto la guida del generale 
Umberto Utili – talvolta son’utili anche i generali! –, conquistò Monte Marrone 
e penetrò nella linea “Gustav”, a nord-est di Cassino. Nel piccolo abitato 
vulturnese venne siglato un atto glorioso del grande dramma civile della 
Resistenza. Ne è ulteriore testimonianza la stele dell’intellettuale Jaime 
Pintor, ucciso poco più che ventenne mentre attraversava queste zone per unirsi 
alle file partigiane del Lazio. 
 
Tra le emergenze architettoniche scapolesi si distingue senz’altro il
Palazzo dei Marchesi Battiloro, con vertiginose mura strapiombanti sulla 
roccia. Ariose stanze all’interno, ripostigli e, nei locali della cucina, un 
grandioso camino di pietra. Un dedalo di passaggi segreti aggiunge mistero alla 
visita del Palazzo marchesale.
Antistante Palazzo Battiloro un magnifico androne, detto Sporto, 
da cui inizia il Cammino di Ronda. L’itinerario si snoda a 360° lungo il 
profilo roccioso su cui si estolle il borgo di Scapoli.
Dallo Sporto s’imbocca la viuzza detta Scarupato, sormontata da 
secolari travi lignee, e si prosegue in un percorso che alterna anguste 
finestrelle e antichi portoncini di fóndachi. Sul lato destro dell’itinerario, 
aperture a tutto sesto permettono di abbracciare con lo sguardo il paese 
sottostante.
Superata la Portella, la stradina si fa più ampia e da un muretto è 
possibile avvistare Monte Azzone e le romantiche vestigie di Rocchetta 
Vecchia. Inoltrandosi fino alle Merghe si conquista la prospettiva 
più panoramica del cammino: stupefacente approdo visuale sulle cime di Monte 
Marrone e Monte Mare, appartenenti alla catena delle Mainarde.
Si narra che il pittore francese Charles Moulin, osservando per la prima 
volta i tagli di luce rosata sulle cime innevate di Monte Mare al crepuscolo, 
sia quasi caduto in un deliquio di estasi.
 
Situata ai piedi del Cammino di Ronda, nel Rione San Giovanni, 
l’omonima Cappella custodisce un pregevole affresco, nel quale Cristo è 
effigiato nell’abbraccio vulvare di una mandorla.
All’esterno della Cappella si può ancora vedere l’antica fonte, da cui 
fino agli anni settanta le belle fanciulle scapolesi attingevano l’acqua con le
tine.
Nella Chiesa Parrocchiale di San Giorgio la pala dell’altar 
maggiore ritrae l’omonimo santo, patrono del paese.
Di grande impatto estetico sono, infine, le vecchie dimore scapolesi, che i 
virtuosi scalpellini locali hanno dotato di pregevoli portali e chiavi di volta 
in pietra.
A testimoniare il valore dei magnani (fabbri ferrai) autoctoni, restano 
superbi balconcini in ferro battuto, che le donne scapolesi, a primavera, 
adornano con le tinte e i profumi dei fiori.
 
B) Il Festival Internazionale della Zampogna – Scapoli è denominata 
“capitale mondiale della zampogna”. Dal 1975, infatti, vi si svolge, nell’ultimo 
week-end di luglio, la Mostra Mercato e Festival Internazionale della 
Zampogna. La manifestazione richiama nel borgo vulturnese migliaia di 
turisti, provenienti da ogni parte d’Italia e alcuni anche dall’estero: cultori 
delle tradizioni artigiane, esperti di musica popolare, persone di varia 
estrazione ed età, attratte tutte dal fascino naïf del folklore musicale. 
In occasione del Festival, convengono a Scapoli i migliori virtuosi della 
zampogna italomeridio_
nali nonché alcuni epigoni della tradizione esecutiva scozzese. 
In un vano di Palazzo Battiloro, nella parte alta del paese, e nelle 
suggestive borgate di Ponte e di Fontecostanza - raggiungibili 
percorrendo un antico sentiero tra fruscìi d’ulivi, dei peri, dei sorbi, 
degl’albicocchi e dei ciliegi - si possono visitare le botteghe dei più noti 
costruttori di zampogne molisani.
 
C) Gli zampognari, la zampogna e gli artigiani-costruttori di Scapoli –
Connessa intimamente
alle vive fibrille della tradizione pastorale e assurta quasi ad emblema di 
quella cultura, la zampogna ha subito lo stesso processo di marginalizzazione 
che ha sfibrato il nucleo pulsante della civiltà contadina.
Un tempo encomiati interpreti della sacralità natalizia, nonché acclamati 
esecutori di tanta musica profana (saltarelli, tarantelle etc.), oggi gli 
zampognari ravvivano soltanto qualche sparuto (e spesso oleografico) fenomeno di 
revival.
Assistiamo qui all’ennesimo (e purtroppo ordinario) esempio di come la 
civiltà dell’industria e delle macchine – con saccente e spietata arroganza – 
trascuri e annulli tutto ciò che non rientra nel novero dei suoi valori e che 
essa – ignorandone i nessi – non riesce a comprendere: la natura, le tradizioni, 
la nostalgia, la memoria, la lentezza, il silenzio, il pregio della solitudine e 
il significato del tempo… (Dir questo non significa demonizzare in toto 
le realizzazioni sociali, culturali, scientifiche e tecnologiche che si sono 
affermate a partire dalla seconda metà del secolo scorso).
Credo comunque che sia pienamente giustificato se un senso di lutto e di 
dolore vena il nostro stupore dinnanzi allo strenuo rigoglio di costumanze 
ancestrali: è come vedessimo, in una pianta gemmante fuori stagione, che il suo 
fusto non ha radici né humus cui attingere, né aria da cui bere la luce.
 
La zampogna è uno strumento aerofono ad ancia, diffuso sin dall’antichità con 
una grande varietà tipologica in tutta l’Europa, in Asia e nell’Africa 
settentrionale. Deriva presumibilmente dal flauto di Pan o siringa 
(strumento noto anche nell’antichità classica) mediante l’innesto di alcune 
‘canne’ (o ‘fusi’) in un ‘otre’ di pelle riempito d’aria.
La ricerca etno-organologica non ha ancora individuato con certezza l’epoca e 
la regione in cui fu ideato l’innesto ‘fuso-otre’, a causa dell’assenza di fonti 
bibliografiche ed iconografiche probanti.
Presso i Romani era in uso uno strumento simile alla zampogna, conosciuto col 
nome di tibia utricularis. Dal Medioevo in poi si moltiplicarono 
strumenti affini, il più noto dei quali, la cornamusa, conobbe un’ampia 
diffusione nella musica tradizionale scozzese, irlandese ed inglese.
L’etimologia più accreditata rimanda al termine greco ‘symphonia’ 
(accordo di suoni), ma è pure interessante esaminare quella proposta da Franco 
Izzi (esperto conoscitore della prassi costruttiva ed esecutiva degli strumenti 
scapolesi): essendo particolarmente difficile acquisire quella coordinazione tra 
pressione del braccio e respiro necessaria per ottenere una fluida continuità di 
emissione sonora, Izzi suppone il termine zampogna derivare da ‘sanbursa’ 
o ‘sonbursa’, come crasi di ‘san-’ (da ‘sapiens’ sapiente, 
o da ‘sonà’ sonare) e di ‘-bursa’ (otre di pelle).
Dante Alighieri utilizza, nel Paradiso, il termine “sampogna”.
Rifacendoci ad una categoria ormai acquisita nella ricerca musicologica 
contemporanea, possiamo affermare che “gli strumenti musicali, come tutti gli 
elaborati culturali, seguono vicende generali (insediamenti, migrazioni, 
conflitti e commistioni tra popoli); in questo senso alcuni tra i caratteri 
tipologici fondamentali degli strumenti a noi contemporanei possono essere 
ricondotti […] a due grandi aree, entro le quali hanno agito, in epoche diverse, 
i flussi compositi di grandi correnti culturali: l’area mediterranea, 
interessante l’Italia centro-meridionale e le isole da una parte, e l’area 
continentale europea, cui si connettono i caratteri dell’Italia del 
nord dall’altra […] (Febo Guizzi). Le zampogne dell’Italia centrale e 
meridionale (area mediterranea) si distinguono da quelle dell’Italia 
settentrionale (baghèt delle Alpi bergamasche, piva dell’Appennino 
parmense, müsa delle «Quattro Provincie») per la presenza del doppio 
chanter (termine anglosassone indicante la canna dotata di fori digitali, 
che non trova corrispettivo nella lingua italiana, ma svariate designazioni 
vernacolari) e dei bordoni (uno, due, tre, eccezionalmente quattro) 
impiantati nello stesso blocco che porta i due chanters. 
La varietà tipologica che presentano le zampogne italiane centro-meridionali 
e siciliane sembra dipendere dai differenti stadi evolutivi dello strumento. 
Ricordiamo la «zampogna di Fossalto» (in Molise), un tempo suonata 
durante il rito maggese della Pagliara; la surdulina, diffusa 
nella Calabria settentrionale e nelle colonie albanesi al confine tra Calabria e 
Basilicata; la zampogna a paro, della Calabria meridionale e della 
Sicilia sud-orientale.
Il tipo di zampogna un tempo più diffuso nel Molise, in Abruzzo e nel Lazio 
era la cosiddetta
«zampogna zoppa», ampiamente rappresentata nell’iconografia ottocentesca. 
In questa forma, lo strumento è attualmente in uso soltanto nella zona di 
Amatrice (Alto Lazio), dove è denominato le ciaramelle, e in ristrette 
aree dell’Appennino laziale ed abruzzese (provincie di Roma, Teramo e 
dell’Aquila). Tutte le zampogne zoppe sono impostate con le scale delle 
due canne a distanza di quarta (come nelle zampogne a paro calabresi e 
siciliane). 
Fu verosimilmente a Napoli, nel XVIII secolo, che si raggiunse lo stadio 
moderno dello strumento, con l’aggiunta di una chiave (simile a quella delle 
bombarde rinascimentali) alla canna sinistra, ottenendo la cosiddetta 
«zampogna a chiave», attualmente presente nel Lazio meridionale, in Molise, 
in Campania, nella Basilicata occidentale e nella Calabria settentrionale. 
L’impianto di questo strumento è basato sulle scale dei due chanters a 
distanza di ottava (con la particolarità della zampogna di Monreale che suona in 
minore). La zampogna a chiave viene costruita in varie misure; la più 
usuale è detta «25» (in Lazio, Molise e Campania settentrionale), dalla 
lunghezza in centimetri del fuso sinistro (misurato da inizio canna al primo 
foro melodico).
Per costruire i loro strumenti, gli artigiani scapolesi utilizzano 
soprattutto legno di ulivo, di ciliegio, di prugno e di acero, ma anche di 
mandorlo, sorbo, albicocco, pero e bosso.
Per realizzare l’otre, alle pelli di pecora e di capra va sempre più 
sostituendosi l’utilizzo di camere d’aria ricoperte di pelle conciata o sinetica.
 
Dal momento che la zampogna offre un ridotto spettro di modulazione melodica, 
nella prassi esecutiva essa funge spesso da strumento d’accompagnamento della 
ciaramella. La ciaramella (dal lat. tardo ‘calamellus’, dim. di 
‘calamus’ canna) è un oboe semplice privo di pirouette. Denominata 
anche biffera, piffera o pipita, il suo utilizzo è 
testimoniato in Molise, Abruzzo, Lazio, in Campania e in Calabria. 
L’associazione della ciaramella con la corrispondente zampogna a chiave 
(e, più raramente, con la zampogna zoppa) è caratteristica di buona parte 
dell’area mediterranea.
 
E’ frequente l’interscambio fra i nomi di zampogna e di cornamusa. Si tratta, 
invero, di strumenti imparentati, ma notevolmente dissimili. La cornamusa è uno 
strumento esclusivamente solistico, con una gamma di modulazione espressiva 
equiparabile al repertorio melodico della ciaramella. La canna sonora a 
modulazione di suono delle cornamuse viene suonata come un flauto, con entrambe 
le mani dell’esecutore che digitano sullo stesso fuso. La zampogna, al 
contrario, è essenzialmente uno strumento d’accompagnamento e le mani del 
suonatore operano su due fusi separati (accordati – come già detto – a un’ottava 
negli esemplari a chiave e a una quarta nelle zoppe). Inoltre, a 
differenza di molte cornamuse, la zampogna italiana non monta alcun ‘soffietto’, 
ma viene gonfiata direttamente dalla bocca dello zampognaro.
Tra le zampogne italiane, l’unico modello che può essere correttamente 
assimilato alla cornamusa è la piva da saca del Veneto (la baghèt 
delle valli bergamasche). I 7 fori di modulazione e i 2 bordoni sonori che 
caratterizzano questi modelli, sembrano infatti testimoniare una derivazione 
diretta della piva nord-italica dalla cornamusa scozzese (Higland 
Bagpipe).
 
Venendo infine a trattare degli artigiani-costruttori di zampogne scapolesi, 
è doveroso innanzitutto affermare che Scapoli non è, evidentemente, l’unico 
paese italiano dove sopravvive questa preziosissima forma di artigianato. 
Restando in ambito molisano, è d’uopo ricordare alcuni luoghi in cui è stata 
tramandata nei secoli la manifestazione culturale in esame.
Villalatina anzitutto, dove la famiglia D’Agostino ha preservato e trasmesso, 
forse anche agli artigiani scapolesi, un’ineguagliabile maestrìa artigiana. 
Acquafondata, Castelnuovo al Volturno, San Polo Matese, S. Biaggio Saracinisco 
(i cui nomi meriterebbero menzione già solo per il loro fascino sonico) sono 
altri paesi che nei secoli si sono distinti nell’artigianato e nell’utilizzo 
musicale delle zampogne.
Scapoli resta però, attualmente, la località italiana in cui maggiormente si 
concentrano i costruttori e i suonatori di zampogna.
 
A questo punto vorrei nominare direttamente alcuni protagonisti di questa 
mirabile tradizione artigiana: Benedetto (†1965), Ettore (†1986), Luciano e 
Umberto Di Fiore, Gerardo Guatieri (†’04), 
Angelo Guatieri, Luigi Ricci, Palmerino Caccia (†1991: costruttore di ance), 
Antonio Pitassi (†1993: fabbro che realizzò gli utensili per gli artigiani 
scapolesi).
Merita un approfondimento la figura di Gerardo Guatieri, di gran lunga il più 
noto e apprezzato tra i costruttori di zampogne laziali-molisane, sia presso gli 
specialisti sia presso il vasto pubblico amatoriale. 
Fino a pochi anni or sono era possibile visitare la sua bottega, dove 
convenivano ricercatori e musicisti, coi quali Gerardo si intratteneva a narrare 
gli episodi della sua vita. 
Non discendeva, lui, da antenati che gli avevano “consegnato il mestiere” 
(com’è il caso, ad esempio, della famiglia Di Fiore, sempre di Scapoli). Era 
tornitore meccanico ma, come prigioniero dei tedeschi, finse di conoscere e 
rapidamente acquisì l’arte della tornitura del legno, riesumando quanto aveva 
osservato nei laboratori artigiani di zampogne e ciaramelle, frequentati in 
gioventù essendo lui stesso un discreto suonatore di questi strumenti. 
Dopo la liberazione aprì una sua bottega e da allora, per tutta la vita, 
esercitò la professione di costruttore, coniugando in modo singolarissimo 
l’imperativo di conservare e trasmettere il patrimonio tradizionale con un 
vigoroso impulso innovativo (si deve a lui, in collaborazione con Cesare Perilli, 
l’ideazione e la realizzazione della zampogna detta a quattro canne).
Gerardo Guatieri è morto nel 2004 ad 85 anni. Il figlio, che risiede in 
Belgio, non ha intrapreso la professione del padre. Con Gerardo si è spento 
irrevocabilmente un segmento di quella cultura orale ed artigiana – fatta di 
valentìa, orgoglio, caparbietà, intuizione innovativa (ma senza remissione alle 
mode degeneri del mercato), acuta consapevolezza del proprio compito 
“tradizionale-evolutivo” – che l’ignobile contaminazione di ogni stilla del 
vivere cogl’imperativi suicidiari del mercato ha inesorabilmente condannato 
all’estinzione.
Credo di non distorcere il pensiero di Saramago citando, a conclusione, le 
parole che egli fa dire al vasaio Cipriano Algor, protagonista del romanzo 
“La caverna”: […] sono i tempi che cambiano, sono i vecchi che ogni ora 
invecchiano di un giorno, è il lavoro che non è più quello che era, e noi che 
possiamo essere soltanto ciò che siamo stati, all’improvviso ci rendiamo conto 
di non essere più necessari nel mondo, ammesso che mai lo siamo stati, ma 
credere di esserlo ci sembrava già tanto, sembrava sufficiente, ed era in un 
certo senso eterno per il tempo in cui sarebbe durata la vita, perché l’eternità 
è questo, nient’altro che questo. […] 
Vittorio Dotti
Bibliografia
Roberto Leydi (cur.), Canti e musiche popolari, Banca Provinciale 
Lombarda
Curt Sachs, Storia degli strumenti musicali, Mondadori
Marius Schneider, La musica primitiva, Adelphi
Pier Paolo Pasolini (cur.), Canzoniere italiano: antologia della poesia 
popolare, Garzanti
José Saramago, La caverna, Einaudi
Franco Izzi, Scapoli: Realtà Storiche e Culturali di Consapevolezza 
Tradizionale, Scapoli 1994
Ida Di Ianni, Maria Stella Rossi, Scapoli e il Festival Internazionale 
della Zampogna, in Altri Itinerari, Anno III N. 7 (Estate 2005), 
Volturnia Edizioni
Ho infine contratto un debito di stima e di riconoscenza nei confronti 
dell’attuale Sindaco di Scapoli – Dott. Vito Izzi – che si è prodigato 
per farmi ricevere in tempi strettissimi due delle succitate fonti 
bibliografiche.