«Ti dice niente il nome Demostene?» mi domanda un giorno Giovanni
Giovannetti, per telefono, a bruciapelo.
«Perché me lo chiedi?»
«Perché in questo momento ho sotto gli occhi una foto segnaletica di un certo
Demostene Moresco.»
«Da dove chiami?»
«Dal Casellario Politico Centrale, a Roma.»
«E cosa ci fai lì?»
«Sto fotografando alcuni fascicoli dei sorvegliati politici durante il
fascismo. Mentre scorrevo gli elenchi mi è capitato sotto gli occhi il nome
Demostene Moresco e mi sono chiesto se c’entra qualcosa con te. Tanto più che ha
la tua faccia.»
«È mio zio.»
Così inizia la storia, così inizia il romanzo Zio Demostene. Vita di
randagi di Antonio Moresco (Effigie, 2005). Mi è scappato il termine
romanzo che calza un po’ sì e un po’ no per questo libro tessuto di ricordi
personali, di narrazioni “leggendarie” di famiglia, di documenti. Ma tutto
questo ne farebbe caso mai una biografia – direte –, e se aggiungiamo quanto di
personale del narrante (“io” per nulla immaginario) viene trascinato a valle da
questo fiume di emozioni e di riflessioni, forse altri generi potrebbero essere
schierati perché si possa scegliere quello “opportuno”. Se il libro non fosse corredato dalle fotografie di famiglia, forse mi
credereste più facilmente quando dico che di “romanzo” si tratta. Ma l’invenzione
è determinante perché la narrazione fosse convincente come romanzo?
Se volete, c’è anche la fiaba: “c’era una volta un uomo che costruì una casa
con le pietre raccolte lungo un torrente…” – è il nonno; “c’era una volta una
ragazza poverissima che andò a bussare alla porta di una nobile famiglia perché
la prendessero come serva. Aveva la fame accumulata di generazioni di affamati…”
– è la madre, quella che avrà poi il coraggio di accompagnare la marchesa a
trovare il figlio che fa il partigiano in montagna… E gli uomini? Lo zio
Demostene, nato nel 1900, diffidato politico, perennemente alla ricerca di una
vita altra. E degli altri uomini chi finisce militare in India, chi in
Russia; chi cerca di fare “l’imprenditore” e chi guida locomotive a vapore.
Fascisti e antifascisti, da un paese del Vicentino a Mantova, a Verona, o fino
in Istria e in Brasile… È una affascinante coincidenza che nella villa dove la
madre aveva lavorato, Bertolucci avesse ambientato il suo Novecento.
Durante la stesura del libro, Moresco (che le quarte di copertina dichiarano
mantovano, e lo è per l’anagrafe) torna nel paese delle “origini”, a
Mason, per controllare delle date al cimitero. «A un certo punto mi sono
trovato persino di fronte a un “Moresco Antonio”. “Calma! Calma! Un momento!” mi
sono detto. “Fra un po’ arrivo anch’io. Ma adesso avrei ancora qualche cosa da
finire e ancora qualche altra cosa da cominciare. Dovrei portare tutto quanto è
iniziato al suo giro d’orbita, se mi verrà dato il tempo. Adesso c’erano queste
figure sepolte che chiedevano ancora di imperversare. Avevo ancora questo debito
da saldare e l’ho saldato”.»
Per non perdersi negli incroci oggi e domani, è necessario conoscere la mappa
genetica di un secolo che non sembra finito? Forse. Colui che scrive una storia,
delle storie, incarnando la storia, possiamo definirlo uno scrittore…
diciamo credibile?
«Mio padre era molto contento, il giorno che sono venuto al mondo. Quando
l’ha saputo si è messo a gridare: “È nato! È nato! È un maschio! È un
meccanico!” Perché forse sperava di riprendere attraverso di me il filo della
sua vita e dei suoi sogni spezzati dalla guerra e da tutto il resto. […] Le sue
aspettative sono state deluse. Sono diventato anch’io “come lo zio Demostene”,
di lì a un po’. E poi, come se non bastasse, sono stato preso da altri stupidi
sogni alfabetici e geroglifici, sono diventato uno stupido scrittore randagio.»
M.T.