Bush ha incassato una storica sconfitta. Per anni abbiamo sperato che i 
cittadini statunitensi riuscissero a dire basta a lui, alla sua guerra, alla sua 
ideologia del nemico. Ora lo hanno fatto.
Tutti coloro che, nelle istituzioni e nella società civile, cercano di 
affermare una politica di cambiamento hanno un grande opportunità in più. 
Sono più favorevoli, nel nuovo contesto, le condizioni per chiudere con gli anni 
terribili della guerra permanente, dell’unilateralismo, dell’arbitrio. È 
possibile immettere elementi di discontinuità reale nella scena internazionale, 
che sostanzino la sostituzione della guerra con la politica. Dopo il voto in 
Usa, diventa credibile la possibilità di spezzare la spirale di violenza che 
domina il mondo.
Forse non è obbligatorio finire dentro lo scontro di civiltà.
Già questa estate, durante i giorni terribili dell’invasione del Libano, 
proprio il nostro paese ha dimostrato che invertire la rotta autodistruttiva di 
questi anni è possibile. 
Scomparso dalla scena uno dei leader più succubi al governo Usa, la scelta del 
nuovo ministro degli Esteri di recuperare la vocazione mediorientale dell’Italia 
e i dettati del diritto internazionale ha consentito di spostare l’Europa, di 
rimettere in gioco le Nazioni Unite, e di arrivare all’accordo per il cessate il 
fuoco.
Ma sono proprio i protagonisti di quell’accordo a ricordarci che esiste 
un drammatico fattore tempo. L’opportunità che si è aperta a fine agosto è 
appesa a un filo.
In Medio Oriente, gli anni della guerra permanente hanno prodotto una 
degenerazione dello scenario talmente profonda da rischiare di divenire 
irreversibile. Negli ultimi dieci anni in Israele e in Palestina si è 
sviluppato, nel silenzio generale del mondo democratico, uno dei più mostruosi 
laboratori della guerra permanente.
Il diritto internazionale è scomparso, la legge del più forte si è 
imposta come regola. L’ideologia della guerra al terrorismo che tutto permette 
ha fatto il resto.
La comunità internazionale, pensando così di stare al suo fianco, ha 
permesso ad Israele di chiudersi nel militarismo e nel securitarismo più cupo.
I danni prodotti in quella società sono tali da far dire oggi a David 
Grossman «comincio a pensare che anche se la pace giungerà domani, anche se un 
giorno torneremo a una situazione di normalità, abbiamo forse già perso 
l'opportunità di guarire».
I palestinesi, frustrati nelle speranze negoziali e sempre più pesantemente 
occupati, hanno perso fiducia nella politica e nella diplomazia. Tanti, 
nelle situazioni spaventose come Gaza, sono divenuti preda della propaganda 
estremista. Se la questione palestinese finisce di essere problema nazionale e 
affoga nel mare del radicalismo islamico, non ci sarà pace per nessuno, e la 
prima a pagarne i prezzi sarà la sicurezza dello stato di Israele.
Per il mondo questo è uno scenario da incubo: se c’è una chiave della 
pace o della guerra globale essa è - per tante ragioni storiche, politiche e 
anche simboliche - in Medio Oriente.
È obbligatorio mettere al primo posto nell’agenda la Palestina. Ogni 
civile in più ammazzato a Gaza è un problema per tutti. E non solo per doveroso 
senso di umanità e di giustizia verso gli ultimi.
È una questione di interesse generale. Non si tratta di prendere parte 
per questo o quel contendente. La logica di schieramento ha già fatto troppi 
danni, nell’ultimo periodo in cui troppi hanno confuso la difesa del diritto di 
esistere di Israele con la complicità alle politiche dei suoi governi, inclusa 
l'invasione di un paese sovrano.
Si tratta invece di riportare, anche in quell’area, il diritto 
internazionale a riprendere il primato che gli spetta e che impone il suo 
rispetto a tutti i paesi, senza eccezione alcuna. 
Dalla Convenzione di Ginevra che sancisce i doveri degli occupanti, alla 
Corte dell’Aja che ha dichiarato illegale il Muro, alle Risoluzioni dell’Onu su 
«due stati per due popoli», tutto è stato in questi anni ignorato, 
stracciato, disatteso.
Ripartiamo da lì. Come in Libano, ripartiamo dal dovere di protezione 
della popolazione civile. Il governo Italiano prenda l’iniziativa. Può portare 
con sé l’Europa, muovere le cose, diventare riferimento per chi nel mondo cerca 
una sponda per cambiare la politica internazionale. 
Con questo spirito saremo a Milano il 18 novembre, a manifestare per la 
pace e la giustizia in Medio Oriente. Sfileremo portando palloncini neri con 
la scritta «SOS GAZA», gli stessi che i pacifisti israeliani hanno alzato nella 
manifestazione a Tel Aviv, undici anni dopo l'assassinio di Rabin.
Dal «Time for peace» del 1990 sono passati sedici lunghissimi anni. 
Siamo costretti a ripetere oggi «il tempo è ora». Ora, perché non sia davvero 
e per sempre troppo tardi.
Paolo Beni - Presidente Nazionale Arci
Raffaella Bolini - Responsabile Internazionale Arci