15 Settembre, 2002
Raccontare una storia per salvare gli uomini (di David Grossman)
Discorso di apertura del Festival della Letteratura di Berlino (da La Repubblica del 5 settembre 2007)
Pubblichiamo qui quasi integralmente il discorso con cui David
Grossman ha aperto ieri il Festival della Letteratura di Berlino:
una analisi del linguaggio degli individui e del linguaggio delle
masse sullo sfondo dell'Olocausto e del rapporto che le nuove
generazioni hanno con quella tragedia: il tema del romanzo più noto
di Grossman: "Vedi alla voce: amore".
Essere uno scrittore israeliano che apre il festival della
letteratura di Berlino è per me un grande onore. Questa frase
sarebbe stata impensabile e impronunciabile fino a pochi anni fa e
ancora oggi non posso essere indifferente riguardo al suo
significato. Nonostante tra Germania e Israele - e tra israeliani,
ebrei e tedeschi - si mantengano relazioni strette, una frase come
questa non è né neutra né ovvia. C'è un posto nella coscienza, nel
cuore, in cui certe frasi devono passare attraverso le lame affilate
del tempo e della memoria, come un raggio di luce, per scomporsi in
una miriade di suoni e di colori.
E qui, a Berlino, non posso che cominciare il mio discorso con
queste parole, che si scompongono dentro di me attraverso le lame
affilate del tempo e della memoria. Sono nato e cresciuto a
Gerusalemme, in un quartiere, in una famiglia, dove la gente non era
nemmeno in grado di pronunciare la parola «Germania». Faticava
persino a dire «Shoah». Parlava di «ciò che è successo laggiù». È
interessante notare che in ebraico, in yiddish, o in qualsiasi altra
lingua parlata da ebrei, la Shoah è per lo più «qualcosa che è
successo laggiù», diversamente da «ciò che è accaduto allora» per i
non ebrei. C'è una differenza abissale tra laggiù e allora. Allora è
un avverbio di tempo che indica un passato che non esiste più.
Laggiù è un avverbio di luogo e allude al fatto che da qualche
parte, in un qualche posto, ciò che è successo ancora cova sotto le
ceneri, sirafforza, e potrebbe tornare a esplodere. Non è una cosa
finita.
Di certo non per noi ebrei. Da bambino sentivo molto spesso parlare
della «belva nazista» ma quando domandavo agli adulti chi fosse,
loro si rifiutavano di spiegarmelo.
Dicevano che ci sono cose che un bambino non deve sapere. Più tardi
scrissi in Vedi alla voce: amore di Momik, figlio di sopravvissuti
all'Olocausto al quale i genitori non rivelano ciò che è avvenuto
laggiù. Momik, pieno di paura, immagina la belva nazista come un
mostro che domina un paese chiamato laggiù, maltratta le persone a
cui vuole bene, fa cose che lasciano ferite indelebili e nega loro
la possibilità di avere una vita normale, serena.
La mia generazione, quella dei nati nei primi anni Cinquanta in
Israele, viveva in un silenzio carico di presenze, densamente
affollato. Nel quartiere in cui abitavo c'era gente che ogni notte
aveva incubi, urlava. Più di una volta, quando entravamo in una
stanza in cui degli adulti raccontavano episodi della guerra, la
conversazione si interrompeva. Ma di tanto in tanto riuscivamo a
captare frammenti di frasi: «L'ultima volta l'ho visto in
Himmlerstrasse, a Treblinka»; «Ha perso i due figli durante la prima
retata». (...)
Quando avevo sette anni si è tenuto a Gerusalemme il processo ad
Adolf Eichmann e allora abbiamo cominciato ad ascoltare le
descrizioni delle atrocità anche durante la cena. La mia generazione
ha perso l'appetito, e non solo per il cibo. Lo ha perso per
qualcosa di più profondo che noi bambini, allora, naturalmente non
capivamo e che ci si è chiarito in seguito. Forse era la perdita
dell'illusione che i nostri genitori potessero proteggerci da ciò
che ci faceva paura, o della convinzione che noi ebrei potessimo un
giorno vivere sicuri e sereni come gli altri popoli.
Ma forse, più di tutto, percepivamo la perdita della nostra naturale
fiducia di bambini negli altri, nella bontà del prossimo, nella sua
compassione. All'incirca vent'anni fa, quando mio figlio maggiore
aveva tre anni, nella scuola materna che lui frequentava fu
celebrata, come tutti gli anni, la giornata della memoria per le
vittime della Shoah. Lui non capì molto di quello che gli venne
spiegato. Tornò a casa confuso e spaventato. «Papà, cosa sono i
nazisti? Cos'hanno fatto e perché?». Io non volevo dirglielo. Io,
che ero cresciuto in un silenzio che mi aveva provocato ansie e
incubi, che avevo scritto un libro su un bambino che era quasi
impazzito a causa del silenzio dei genitori, capii all'improvviso
perché i miei e quelli dei miei amici avevano taciuto.
Sentivo che se avessi raccontato a mio figlio ciò che era avvenuto
laggiù, se glielo avessi accennato, pur con enorme delicatezza,
qualcosa della sua purezza di bambino di tre anni sarebbe stato
contaminato. Sentivo che nel momento in cui quelle possibilità
crudeli si fossero formulate nella sua coscienza innocente, lui non
sarebbe mai più stato lo stesso bambino. E non sarebbe più stato un
bambino.
Dopo che fu pubblicato Vedi alla voce: amore in Israele alcuni
critici scrissero che appartenevo alla «seconda generazione della
Shoah», che ero figlio di «sopravvissuti all'Olocausto». Non lo
sono. Mio padre arrivò nella terra di Israele dalla Polonia nel
1936. Mia madre è nata in Palestina, prima della fondazione dello
Stato.
Eppure sono figlio di «sopravvissuti alla Shoah» perché anche a casa
mia, come in tante altre case israeliane, era teso un filo carico di
angoscia che potevamo toccare in qualsiasi momento. E anche se
stavamo molto attenti e non facevamo movimenti bruschi, avvertivamo
un costante fremito di insicurezza nella possibilità di esistere, di
sospetto nei confronti degli altri e di cosa questi altri potessero
farti quando meno te lo aspettavi. (...)
Chi come me è nato nell'Israele del dopo Shoah si porta dentro la
sensazione - di cui ci era proibito parlare allora e che forse non
eravamo nemmeno in grado di esprimere a parole - che noi ebrei
intratteniamo un dialogo diretto con la morte. Che la vita, anche
quando è piena di energie e di speranze e della fertilità di una
nazione giovane, in rinnovamento, è più che altro uno sforzo enorme,
costante, di sfuggire alla minaccia della morte.
Nell'Israele degli anni Cinquanta e Sessanta, non solo in momenti di
disperazione ma anche in quelli in cui l'esaltazione per
la «creazione di una nazione» si affievoliva soltanto di poco, in
cui ci sentivamo un po' stanchi della nostra formidabile rinascita,
in quegli attimi di malinconia, privata e nazionale, potevamo
percepire la morsa di gelo che ci stringeva il cuore e ci sussurrava
con voce sommessa ma perentoria: la vita svanisce così in fretta,
tutto è talmente fragile. Il corpo, la famiglia. La morte è reale,
tutto il resto è un'illusione.
Nel momento in cui ho capito che sarei diventato uno scrittore, ho
capito anche che avrei scritto della Shoah. Penso che queste due
consapevolezze siano nate in me simultaneamente. Forse anche perché
fin da giovane ho avuto la sensazione che tutti i libri che avevo
letto sulla Shoah non rispondessero a domande semplici, vitali, che
dovevo pormi e alle quali dovevo rispondere da solo.
E più il tempo passava più sentivo crescere in mela sensazione che
non sarei stato in grado di comprendere la mia esistenza in Israele
come uomo, padre, scrittore, israeliano, ebreo, fintanto che non
avessi scritto della vita che non avevo vissuto laggiù, durante la
Shoah, e cosa mi sarebbe successo se fossi stato una vittima, o uno
degli assassini.
Perché volevo sapere entrambe le cose. Non mi accontentavo di una.
(...) Volevo sapere cosa avrei fatto per contrastare questo
tentativo di annientamento. Quale scintilla di umanità mi sarebbe
rimasta dentro in una realtà il cui unico obiettivo era spegnerla.
A una domanda come questa ognuno deve rispondere da sé. Ma forse
posso dare un suggerimento. Nella tradizione ebraica c'è una
leggenda, o una credenza, secondo la quale in ogni uomo esiste un
ossicino chiamato «luz» - «nocciolo» in ebraico - sistemato in cima
alla colonna vertebrale. Questo ossicino racchiude l'essenza
dell'anima ed è indistruttibile. Anche se l'intero corpo dovesse
disintegrarsi o bruciare, il nostro «nocciolo» rimarrà intatto,
preserverà la peculiarità che c'è in ciascuno di noi, la radice del
nostro essere. Ed è a partire da questo ossicino che l'uomo si
ricreerà nel giorno della resurrezione dei morti.! (...)
La seconda domanda che mi sono posto mentre scrivevo Vedi alla voce:
amore è correlata alla prima e in un certo senso scaturisce da essa.
Mi sono chiesto come una persona normale - come lo erano molti
nazisti e loro sostenitori - possa entrare a far parte di un
meccanismo di distruzione di massa. In altre parole cosa devo
reprimere, offuscare, rimuovere, uccidere di me per poter
collaborare a un genocidio programmato, per essere in grado di
uccidere un altro essere umano, per volere lo sterminio di un popolo
intero, o accettarlo in silenzio.
Forse però dovrei affinare la domanda: in questo momento sto forse
collaborando - coscientemente o inconsapevolmente, attivamente o
passivamente - a un processo il cui scopo è danneggiare un altro
uomo o un gruppo di persone?
«La morte di un uomo è una tragedia», ha detto Stalin, «ma quella di
milioni è statistica». Parliamo per un attimo di come una tragedia
si trasforma in statistica. Non dico, naturalmente, che siamo tutti
degli assassini. E' ovvio che no. Eppure la maggior parte di noi
sembra quasi indifferente alla sofferenza di popoli interi, vicini e
lontani, o a quella di centinaia di milioni di esseri umani poveri,
affamati, ammalati, sia nelle nostre nazioni che in altre parti del
mondo. Impariamo a non curarci del dolore di estranei che lavorano
per noi, del patimento di popoli che vivono sotto occupazione -
nostra o di altri -, o in un regime dittatoriale o in condizioni di
schiavitù.
Con stupefacente facilità creiamo meccanismi che hanno il compito di
farci prendere le distanze dalla sofferenza altrui. Riusciamo, nella
nostra coscienza e a livello emotivo, a ignorare il nesso causale
che esiste fra la prosperità economica delle nazioni occidentali e
la povertà altrui; tra il nostro benessere e le vergognose
condizioni di lavoro di altra gente; tra la qualità della nostra
vita, i nostri condizionatori d'aria e le nostre automobili, e le
sciagure ecologiche che si abbattono su altri.
Questi «altri» vivono in condizioni talmente terribili che per lo
più non hanno nemmeno la possibilità di porre domande come quelle
che pongo io ora. Non è solo il genocidio ad annientare
il «nocciolo» di un essere umano. Anche la fame, la povertà, le
malattie, l'esilio spengono e uccidono gradualmente l'anima del
singolo, e talvolta di un popolo intero.
Noi non vogliamo assumerci nessuna responsabilità personale per le
cose terribili che avvengono a poca distanza da noi. Né mediante
azioni dirette né limitandoci a esprimere solidarietà. Ci fa comodo
quando si parla di responsabilità personale - far parte di una massa
indistinta, priva di volto, di identità, e all'apparenza libera da
oneri e colpe. E probabilmente è questa la grande domanda che l'uomo
moderno deve porsi: in quale situazione, in quale momento, io
divento «massa»?
Ci sono definizioni diverse per il processo con il quale un
individuo si confonde nella massa o accetta di consegnarle parti di
sé. E siccome noi siamo uomini di letteratura, ne sceglierò una
conforme ai nostri interessi. Ho l'impressione che ci trasformiamo
in «massa» nel momento in cui rinunciamo a pensare, a elaborare le
cose secondo un nostro lessico, e accettiamo automaticamente e
senza critiche espressioni terminologiche e un linguaggio dettatoci
da altri.
Io mi trasformo in «massa» quando cesso di formulare con le mie
parole compromessi e scelte morali che sono disposto a compiere.
(...)
Ricorro alla figura dello scrittore ebreo polacco Bruno Shultz per
illustrare l'incontro tra un singolo che possedeva un linguaggio
estremamente peculiare e un «linguaggio di massa» - l'incontro tra
la tragedia e la statistica. Mi riferisco alla vicenda del suo
assassinio durante la seconda guerra mondiale, nel ghetto della sua
città, Drohobycz. La storia è nota, e forse non è neppure vera, è
una leggenda, un aneddoto sul quale negli anni si è costruito «il
mito di Shulz» fra i suoi estimatori in tutto il mondo.
Ma anche se fosse un aneddoto, tocca un punto profondo, vero. «Gli
aneddoti sono sostanzialmente fedeli alla verità» scrive Ernesto
Sabato, «proprio perché sono finzioni, inventati in dettaglio per
adeguarsi con grande precisione a una certa persona». E infatti,
anche se questa particolare storia sulla morte di Shulz non è vera,
ciò che essa esprime è sostanzialmente fedele alla verità ironica e
tragica di quest'uomo, all'orrore del possibile incontro tra
il «singolo» e la «massa», e quindi la racconterò così come l'ho
sentita la prima volta.
Nel ghetto di Drohobycz, durante la guerra, un ufficiale delle Ss
aveva costretto Shulz a dipingere un affresco a casa sua. Un
avversario di quell'ufficiale, che aveva litigato con lui a causa di
un debito di gioco, incontrò per caso Shulz per strada, estrasse la
rivoltella e gli sparò, per vendicarsi dell'uomo per il quale lui
stava lavorando. Stando alle voci l'assassino si recò poi dal suo
rivale e gli disse: «Ho ucciso il tuo ebreo». E quello
rispose: «Benissimo, e ora io ucciderò il tuo».
Venni a conoscenza di questa storia subito dopo aver finito di
leggere per la prima volta il libro di Bruno Shulz. Ricordo che
chiusi il volume e uscii di casa. Girai per ore come immerso in una
nebbia. Ero in uno stato in cui, per dirla con semplicità, non
volevo più vivere. Non volevo continuare a esistere in un mondo in
cui potevano accadere cose come questa, in cui ci sono persone come
quegli ufficiali nazisti che pensavano cose come queste. In cui
esiste un linguaggio che permette a mostri simili di pronunciare
frasi quali «Ho ucciso il tuo ebreo» e «Benissimo, ora io ucciderò
il tuo».
Scrissi Vedi alla voce: amore per restituire a me stesso, fra le
altre cose, la voglia di vivere, l'amore per la vita. E forse anche
per guarire dall'offesa che provavo a nome di Bruno Shulz, per il
modo in cui il suo assassinio era stato descritto e «spiegato». Una
spiegazione disumana, «di massa». Come se gli esseri umani fossero
pedine di scambio, o rotelle di un meccanismo, o accessori che si
possono sostituire con altri, o soltanto parte di una statistica.
Negli scritti di Bruno Shulz ogni frammento di realtà ha una propria
personalità. Ogni nube passeggera, ogni mobile, ogni manichino di
sarto, ogni ciotola di frutta, ogni cagnolino, ogni raggio di sole,
ogni oggetto, anche il più banale, possiede una propria
individualità, una propria essenza, un proprio carattere.
E in ogni sua pagina, in ogni suo brano, esplode la vita, ricca di
contenuto e di significato. Una vita che all'improvviso merita
questo nome. Un'opera enorme che avviene simultaneamente in tutti i
substrati del conscio e dell'inconscio, dell'illusione, del sogno,
dell'incubo, dei sensi, dei sentimenti, di un linguaggio ricco di
sfumature.
Ogni riga è una ribellione contro ciò che Shulz definisce «il muro
fortificato che grava sul significato»; è una protesta contro la
desolazione, la banalità, la routine, la stupidità, gli stereotipi,
la tirannia del semplicismo, della massa. (...)
Quando terminai di leggere il libro di Shulz capii che lui mi dava,
con la sua scrittura, una chiave perché io potessi scrivere della
Shoah. Non di morte e di sterminio ma della vita, di ciò che i
nazisti avevano distrutto meccanicamente, in maniera
industrializzata, di massa.
Ricordo anche che, con l'arroganza del giovane scrittore, dissi a me
stesso che volevo scrivere un libro che tremasse sullo scaffale. Che
fosse vitale come un battito di ciglia nella vita di un uomo. Non
una «vita» tra virgolette che trascorre fiacca, ma una come quella
che Shulz ci insegna. Una vita vera, al quadrato, nella quale non
dobbiamo accontentarci di non ammazzare il prossimo ma dobbiamo fare
in modo che esso viva, così come il momento appena trascorso, le
visioni viste, le parole pronunciate migliaia di volte, e te, e me.
La realtà in cui viviamo oggi non è forse crudele come quella creata
dai nazisti ma certi suoi meccanismi hanno leggi di fondo molto
simili che offuscano l'individualità dell'uomo e lo portano a
rifiutare obblighi e responsabilità verso il destino degli altri. E
una realtà sempre più dominata dall'aggressività, dall'estraneità,
dall'incitamento all'odio e alla paura; dove il fanatismo e il
fondamentalismo sembrano farsi più forti ogni giorno mentre altre
forze perdono la speranza di un cambiamento.
I valori e gli orizzonti del nostro mondo, l'atmosfera che vi si
respira e il linguaggio che lo domina sono dettati in gran parte da
ciò che noi chiamiamo mass media, un'espressione coniata negli anni
Trenta del secolo scorso quando i sociologi cominciarono a parlare
di «società di massa». Ma siamo davvero consapevoli del significato
di questa espressione? Di quale processo i mass media abbiano
subìto? Ci rendiamo conto che gran parte di essi non solo
convogliano un tipo di comunicazione destinata alle masse ma
trasformano i loro utenti in massa?
E lo fanno con prepotenza e cinismo, utilizzando un linguaggio
povero e volgare, trattando problemi politici e morali complessi con
semplicismo e falsa virtù, creando intorno a noi un'atmosfera di
prostituzione spirituale ed emotiva che ci irretisce, rendendo
kitsch tutto ciò che toccano: le guerre, la morte, l'amore,
l'intimità.
A un primo sguardo sembra che questo tipo di comunicazione si
incentri sul singolo, sull'individuo, non sulle masse. Ma è una
suggestione pericolosa. I mezzi di comunicazioni di massa pongono il
singolo in primo piano, lo consacrano persino, incanalandolo sempre
più verso se stesso. Anzi, in fin dei conti, esclusivamente verso se
stesso: verso i suoi bisogni, i suoi interessi, le sue aspirazioni,
le sue passioni. In mille modi, palesi o nascosti, liberano
l'individuo da ciò di cui lui è in ogni caso ansioso di liberarsi:
la responsabilità verso gli altri perle conseguenze delle sue
azioni. E nel momento in cui lo fanno ottenebrano la sua coscienza
politica, sociale e morale, lo trasformano in un materiale docile
alle manipolazioni da parte di chi controlla i mezzi di
comunicazione e di altri. In altre parole lo trasformano in massa.
(...) E' questo il messaggio dei mass media: un ricambio rapido,
tanto che talvolta sembra che non siano le informazioni a essere
significative e importanti ma il ritmo con cui si susseguono, la
cadenza nevrotica, avida, commerciale, seduttrice che creano.
Secondo lo spirito del tempo il messaggio è lo zapping.
La letteratura non ha rappresentanti influenti nei centri di potere
globali che ho appena descritto, e fatico a credere che sia in suo
potere apportarvi qualche cambiamento. Può però proporre un diverso
modo di vivere: secondo un ritmo interno, una coerenza personale più
adatta ai nostri bisogni spirituali e naturali di quanto ci venga
prepotentemente imposto da apparati esterni.
Io so che quando leggo un buon libro qualcosa dentro di me si
chiarisce. La mia percezione di essere una creatura particolare si
fa più netta. La voce precisa, distinta, che mi giunge dall'esterno
risveglia in me altre voci, alcune delle quali erano mute in
precedenza. E anche se migliaia di altre persone leggono lo stesso
libro nel momento in cui lo sto leggendo io, ognuna lo vive in modo
diverso. Per ognuno quel libro è una cartina tornasole di tipo
particolare.
Un buon libro - e non ce ne sono molti perché la letteratura,
naturalmente, è sensibile alle lusinghe e ai trabocchetti della
comunicazione di massa - fa sì che il lettore si distingua dalla
massa. (...)
Quando finii di scrivere Vedi alla voce: amore capii di averlo
scritto per dire che chi annienta un uomo, qualunque uomo, a conti
fatti distrugge un'opera geniale, unica nel suo genere, specifica e
infinita che non si potrà mai più ricreare, né mai ve ne sarà una
simile.
Negli ultimi quattro anni ho scritto un romanzo che intende dire la
stessa cosa, ambientato però altrove, in una realtà diversa. La
protagonista è una donna israeliana di circa 50 anni, madre di un
soldato che parte per la guerra. La sua preoccupazione per il figlio
la porta a presagire la tragedia in agguato, e lei cerca con tutte
le sue forze di scongiurarla lottando contro il destino che attende
il ragazzo. Compie una lunga marcia, percorrendo quasi la metà di
Israele e raccontando senza posa del figlio. E' così infatti che
cerca di proteggerlo, facendo l'unica cosa che è in suo potere per
rendere l'esistenza del figlio più viva e concreta: raccontare la
storia della sua vita. E un giorno, sul piccolo quaderno che porta
con sé, scrive: «Migliaia di attimi e di ore e di giorni, milioni di
azioni, un'infinità di gesti, di tentativi, di errori, di parole e
di pensieri. Tutto per creare un unico essere umano». E poi
aggiunge: «Un essere umano che è così facile distruggere».
(Traduzione di Alessandra Shomroni)
Fonte
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