15 Settembre, 2002
Tre racconti di Maria Pola
Due stanze più i servizi-Puarèt tà’ me Sàant Quintìin-In litografia
Tre racconti di Maria Pola
Due stanze più i servizi-Puarèt tà’ me Sàant
Quintìin-In litografia
Due stanze più i servizi
La mia famiglia occupava un appartamento
delle case popolari di
due stanze più i servizi, ma il gabinetto
era fuori. In comune con
gli altri inquilini, c’era una lavanderia
dove il lavello e numerosi
mastelli si riempivano, a scadenze regolari,
di acqua fatta bollire su un
camino e in cui si scioglievano perborato,
liscivia o soda Solvay per lavare
le lenzuola. Nell’unica camera da letto,
il letto matrimoniale era riservato,
ovviamente, ai miei genitori; io dormivo
su un divano, mentre le mie
sorelle si sistemavano alla meglio su un
lettino in due: una coi piedi in
faccia all’altra. C’era un armadio, ma era
così mal ridotto che bisognava
usare mille precauzioni per aprirlo, perché
si rischiava di trovarsi con
un’anta in mano.
Su due cassette di limoni girate all’ingiù
erano appoggiate due lucerne a
petrolio: se fi niva, nessuno si stupiva
che la stanza restasse al buio. Solo
il comò era davvero bello, con veri cassetti:
lì custodivamo le cose più
preziose, come le pagelle scolastiche, il
diploma e i soldi.
La cucina poi era la più malmessa. Nella
credenza con i cassetti piuttosto
sconnessi e con un’alzata su cui sistemavamo
bicchieri e tazzine, un
giorno trovai un topolino.
Mia mamma cucinava su una stufa a carbone,
la stessa su cui una vicina
di casa mi aveva insegnato a fare la polenta
e i “gratòon”*. Quando
non c’erano soldi per comperare le uova e
le mattonelle di antracite per
alimentare il fuoco, andavamo lungo la ferrovia
dove passava “il gambadilegno”,
e raccoglievamo il carbone caduto a terra.
In fondo non ci mancava niente perché avevamo
persino “la giaséera”*
che nella bella stagione ci costringeva,
ogni giorno, a comperare cinque
centesimi di ghiaccio dal “giasaróol”*, così
potevamo conservare zampe
di gallina e colli di tacchino, mentre sul
fondo era messo a frollare un
gatto già ben preparato per essere messo
in pentola. Ricordo ancora il
profumo del gatto stufato che si mangiava
con la polenta: tornavo dal
lavoro e la fame e quell’insolito aroma coprivano
i silenzi della mia famiglia
a tavola. Mio padre non ammetteva che durante
i pasti si parlasse o
ci fosse la radio accesa.
da un racconto di Maria Pola
Cremona, 15 marzo 2006
----------------------------------------
Puarèt tà’ me Sàant Quintìin
Dire che eravamo poveri come “Sàant Quintìin*”
è poco: non si
trattava di non poter comperare cose, ma
di avere fame. Bisognava
darsi da fare per rimediare qualcosa da mettere
sotto i
denti e poco importava se si era bambini:
tutti in famiglia collaboravano.
Avevo sette anni, nessun problema ad andare
in giro per la città. Alle sei
di mattina, in Piazza Sant’Angelo, al mercato
della frutta e della verdura,
i venditori avevano quasi fi nito di togliere
la loro merce dai carretti che
arrivavano dalla campagna e di esporla. Davano
una ripulita alle verdure
eliminando qualche foglia appassita, scartando
qualche frutto che aveva
perso freschezza.
Gironzolavo intorno a quelle bancarelle ed
ero svelta a raccogliere una
gamba di sedano, qualche patata non del tutto
sana, prima che qualcun
altro mi precedesse. Era una vera fortuna,
quando riuscivo a mettere
nel mio involucro una mela e un’arancia.
Ormai i venditori mi conoscevano,
perciò capitava che, per primi, mi regalassero
qualcosa, invece di
gettarla per terra. Erano davvero giornate
intense, perché, a giorni fi ssi,
incurante anche del freddo, avevo posti dove
andare per racimolare ciò
che serviva in casa. Ad esempio, al bar “Flora”
e ai “Granatieri”, nelle
vicinanze dell’attuale Banca d’Italia, potevo
trovare dei fondi di caffé oppure,
verso sera, tra via Manini e via Giordano,
andavo alla SNUM. In
questo deposito di immondizie, io e mia mamma
giravamo in lungo e in
largo alla ricerca di qualcosa che altri
avevano eliminato, ma che a noi
poteva essere utile. Trovavamo spesso delle
assi di legno: l’addetto era
gentile, ce le portava a casa. Ne traeva
un piccolo vantaggio perché mia
mamma gli regalava un pacchetto di sigarette:
le Popolari.
Di domenica, se non andavamo lungo l’argine
Panizza alla ricerca di
legna, tagliavamo quella della discarica
garantendoci, almeno per alcuni
giorni, un po’ di caldo in cucina.
Ero abituata a lavorare, infatti dai sette
ai dieci anni, le mie vacanze
trascorsero in campagna, a Torre Picenardi,
nella cascina che si trovava
proprio davanti al castello e dove viveva
mia nonna. Quelle non erano
vacanze: si lavorava dalla mattina alla sera.
Noi ragazzine, verso la fi ne di agosto,
dovevamo “pelàa* e simàa*”. Il
sole scottava ancora e le mani che si tagliavano
a causa delle foglie del
granoturco, facevano male. C’era anche chi,
in quell’atmosfera afosa,
trovava la forza di fare la corte a qualcuna.
Mentre scartocciavo una pannocchia
e non avevo altro pensiero che stare attenta
a come muovere le
mani per non farmi male, uno mi diceva che
gli piacevo, che voleva sposarmi.
Mia mamma mi liquidava in fretta quando le
raccontavo le mie
conquiste: “Ma va là…da grande, ne troverai
di stupidi a Cremona…”
In quelle estati faticose ed assolate, tuttavia,
non mancavano momenti
di allegria, quando tutti insieme mangiavamo
nel campo polenta e cotechino
e cantavamo sempre le stesse canzoni al suono
di una chitarra
suonata da non so più chi.
Prima di rientrare in cascina, preparavamo
i “minòt*”, misure in ferro
che riempivamo di granoturco da dare ai contadini
e al vaccaro. Tutto
sommato, ero contenta di quel lavoro perché
sapevo che mia nonna,
per ricompensa, mi avrebbe regalato un vestito
ed un paio di scarpe che
comperava da due ambulanti di Isola Dovarese
e di Asola.
Non si smetteva mai di lavorare. Al rientro
dai campi, in cascina facevamo
il pane: erano il pan biscotto, i deliziosi
“pirlìin*” e le “chisóole*”,
lunghi pani all’olio o all’uovo e quando
nel campo non restava più nemmeno
una pannocchia, era già ora di pigiare l’uva,
di preparare il mosto.
Ai primi di ottobre, le mie vacanze terminavano.
Mio padre arrivava a
Torre Picenardi con una specie di diligenza,
un carretto con panche trainato
da un cavallo di cui si liberava in via Buoso
da Dovara, dove c’era
uno stallo. Allora salivo sulla canna della
sua bici fi no a casa.
Se da bambina ho dovuto lavorare, da giovane
non è stato diverso e
nemmeno più facile: mi aspettavano i tempi
diffi cili della fi ne della guerra,
quando in Largo Pagliari uccisero il “primo”
fascista, mi aspettava
il caos del 25 aprile, quando tutti i fascisti
diventarono comunisti, mi
aspettava la ricerca di un lavoro stabile.
da un racconto di Maria Pola
Cremona, 11 ottobre 2005
-----------------------------------------
In litografia
Mia madre era soddisfatta di avermi trovato
un lavoro - un buon
lavoro, come lei lo defi niva - presso la
litografi a in Piazza Marconi
Avevo quindici anni, non volevo proprio andarci,
ma a nulla valsero i
miei piagnistei. Mi ritrovai in un ambiente
completamente sconosciuto,
davanti ad un macchinario complesso: non
avevo idea di come si usasse
e a cosa servisse, per di più alla presenza
di un capo “rognoso” che
decise, considerata la mia inesperienza,
di mettermi al tavolo a piegare
le tessere annonarie. Quindici giorni interminabili,
un lavoro di una
monotonia estenuante, con l’umiliazione della
perquisizione alla fi ne di
ogni turno lavorativo, per controllare che
non si sottraessero le tessere
annonarie mensili.
Poi fui destinata alla legatoria de “La Vita
Cattolica”. Incalcolabile il numero
dei punti di ferro per rilegare quei giornali.
Dalle nove di sera alle
sei di mattina ed il tempo non passava mai.
Interminabile anche il tragitto
di ritorno a casa: da Piazza Marconi a S.
Imerio. Non c’era in giro anima
viva, per l’orario e per il coprifuoco. Camminavo
veloce, impaurita
dal rumore delle mie ciabatte che battevano
sulla strada.
Arrivavo a casa bagnata del sudore della
paura, con il solo desiderio di
non tornare più al lavoro.
da un racconto di Maria Pola
Cremona, 6 dicembre 2005
 
|