15 Settembre, 2002
I canti della Merla
Incontro con Luigi Dossena, meditando su una cultura che scompare…
Si racconta che, tanto tempo fa, una bellissima giovane merla bianca avrebbe
preso gioco del vecchio inverno. E questo si sarebbe arrabbiato tanto da
soffiare un freddo tremendo sulla campagna, costringendo la merla a rifugiarsi
in un camino. Ne sarebbe uscita l’ultimo giorno di gennaio… nera. Ed ecco l’origine
di una tradizione ormai in disuso: quella di riunirsi nelle cascine, negli
ultimi tre giorni di gennaio a cantare e, con un bel fuoco, “bruciare la
vecchia”, ovvero un fantoccio in rappresentanza del vecchio, dell’invero,
del male.
Nelle cascine no, ma in tante piazze – e così anche nel cortile del
Palazzo Comunale di Cremona – i tradizionali canti della Merla si risuonano
tutt’oggi, grazie a gruppi come quello di S. Bassano. “Gli Ostaggi”,
ovvero Luigi Dossena, ha portato per la quinta volta a Cremona i cantori di S.
Bassano con il repertorio dell’occasione. E su quel palco Dossena è un fiume
di racconti sulla storia, sulla civiltà contadina - “mondo perduto” -,
sulle tradizioni che nelle scuole non si insegnano ai ragazzi che tutto sanno di
Eraclito ma nulla sulle proprie radici… “Hanno fatto di tutto perché
questa cultura scomparisse…” - diceva Dossena, indaffarato nei
preparativi della festa. Ed io avanzavo una timida provocazione: «Hanno fatto…»,
un’azione che presuppone un “attore” che agisce scientemente… Ma Dossena
sorride con gentilezza e glissa sull’argomento. “Ora pensiamo alla festa..”
Un po’ come per dire “non buttiamola in politica”. E su questo non
possiamo che essere perfettamente d’accordo. Il rapporto politica - cultura è
oggetto da maneggiare con cura.
Dossena dal palco ringrazia gli assessori alla cultura del Comune e dell’Amministrazione
Provinciale per aver “patrocinato” anche questa loro iniziativa. È doveroso
alzare il cappello anche davanti ai cantori di S. Bassano e davanti a lui, Luigi
Dossena: la ricchezza di una collettività sta nelle persone che credono
fortemente in un’idea e la coltivano con autentica passione e dedizione. Alzo
il cappello mentre confesso di non condividere per niente la sua visione della
cultura tradizionale e il modo in cui la “reintroduce” nella cultura di
oggi, né tanto meno il suo “perché”.
Gli oggetti della cultura tradizionale sono rinchiusi dei musei o stanno ad
“abbellimento” nelle case private; i “canti popolari” vengono riproposti
sui palchi in modo più o meno “folkloristico”. Quale è la maniera
rispettosa per avvicinarci a questa cultura non è certo argomento nemmeno da
iniziare in una breve cronaca.
Tra gli spettatori su due persone si era soffermato a lungo il mio sguardo.
Il primo: un giovane indiano con il turbante. Forse un bergamino in una delle
cascine dove, tempi che furono, “si cantava la Merla”. La seconda: un’anziana
signora con la pelliccia. Ascoltava i canti “dei suoi tempi” movendo quasi
impercettibilmente la bocca.
Antonino Uccello era un maestro elementare a Cantù, Brianza, Lombardia. La
sua terra d’origine era la Sicilia, dove – a Palazzolo Acreide, sugli Iblei
– aveva costruito uno dei migliori musei etnografici, una “casa-museo”.
Vincenzo Consolo, in “La casa di Icaro” (Le pietre di Pantalica,
Oscar Mondadori) riporta queste parole di Antonino Uccello: “Quando ci
recavamo nei feudi e nelle terre in abbandono, spesso i contadini buttavano via
gli attrezzi dell’uso quotidiano …; con un gesto che voleva distruggere
tutto un cattivo passato. Era il rifiuto di tutto un mondo che rappresentava per
loro uno stato d’oppressione, il loro male antico…”
“Hanno” fatto di tutto …
M.T.
 
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