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15 Settembre, 2002
"Alleati di Washington non vuol dire essere vassalli"
Intervista de L'Unità a Lamberto Dini, l’ex ministro degli Esteri, e attuale vice presidente del Senato

"Alleati di Washington non vuol dire essere vassalli"

sa www.unita.it

«Essere alleati degli Usa non significa divenirne vassalli. Soprattutto quando si è di fronte a scelte così impegnative e drammatiche come assecondare o addirittura essere partecipi di una guerra». Ad affermarlo è l’uomo che ha guidato la politica estera italiana nei governi dell’Ulivo: l’ex ministro degli Esteri, e attuale vice presidente del Senato, Lamberto Dini.
Il ministro della Difesa Usa, Donald Rumsfeld, nei suoi incontri italiani ha sentenziato: «Gli sforzi della diplomazia sono falliti. I giochi sono chiusi». È così?
«Già il fatto che il segretario alla Difesa statunitense venga in Italia in questo momento è di cattivo auspicio. Perché significa che gli Stati Uniti intendono portare avanti le azioni militari. In particolare, ha molto sorpreso anche me che a distanza di ventiquattr’ore dalle dichiarazioni del segretario di Stato Colin Powell al Consiglio di Sicurezza, il presidente Bush abbia voluto rimarcare di persona che i giochi sono chiusi o si chiuderanno inderogabilmente il 14 febbraio, quando gli ispettori torneranno alle Nazioni Unite».

Cosa significano queste prese di posizioni ultimative?
«Due cose, ugualmente preoccupanti: in primo luogo che, anche indipendentemente da quello che diranno gli ispettori, gli Usa cercheranno di forzare il passaggio di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzi l’uso dei mezzi militari per il disarmo di Saddam. Ma vuol dire anche, qualora non ci fosse una maggioranza nel Consiglio di Sicurezza a favore di una tale risoluzione, che gli Stati Uniti vogliano agire unilateralmente, con un’azione preventiva al di fuori dell’ambito del Consiglio di Sicurezza e delle Nazioni Unite. Ed è questo il pericolo maggiore che viviamo oggi».

In questo frangente, l’Italia ha ribadito sia con il presidente del Consiglio Berlusconi che con il ministro della Difesa Martino, la piena intesa con gli Usa. Alleati o vassalli?
«È questa una questione cruciale. Vede, al di là dell’amicizia profonda che lega l’Italia come gli altri Paesi europei agli Stati Uniti, ciò non significa che su singole questioni i Paesi europei, compresa l’Italia, debbano essere sempre d’accordo con gli Usa. Ha sorpreso il fatto che il presidente del Consiglio, durante la sua visita a Washington, abbia dichiarato che l’Italia sarà a fianco degli Stati Uniti in un conflitto militare. Questa era la dichiarazione del presidente del Consiglio, e quando Silvio Berlusconi è stato questionato da Vladimir Putin a Mosca su questa frase, il presidente del Consiglio italiano ha sostenuto che la “mia dichiarazione è stata male interpretata”. Non è la prima volta che questo succede. Quello che io temo è che nel suo intervento ai due rami del Parlamento, il presidente del Consiglio abbia lasciato aperta la possibilità di schierare l’Italia con gli Stati Uniti anche nel caso di un’azione preventiva unilaterale. Non ha chiuso, come avrebbe dovuto fare, quella porta. Mentre ha detto che sarebbe fortemente auspicabile che l’Onu si assuma la responsabilità di ottenere il disarmo, ma anche che l’Onu autorizzi un uso misurato della forza, se è necessario. Ma qualora ciò non avvenisse, quale sarebbe la posizione dell’Italia di fronte ad un’azione unilaterale americana appoggiata da “quattro gatti”, vale a dire da quattro Paesi di non primissimo piano? Del resto, il presidente Berlusconi l’altro ieri ha parlato esplicitamente di guerra preventiva. So che questo è un concetto difficile, che va discusso senza partito preso. Ora, nel pensiero giuridico internazionale, un’azione militare preventiva si può sostenere contro una minaccia imminente, perché in quel caso ci troveremmo di fronte ad un’autodifesa accettata internazionalmente. Il fatto è che oggi non esiste un preciso e condiviso convincimento che vi sia una minaccia imminente da parte dell’Iraq tale da giustificare la guerra».

Alla luce del precipitare degli eventi, come giudica il «Documento degli Otto» a sostegno degli Usa?
«Resto convinto che si sia trattato di una iniziativa fondata su una cattiva idea che poteva essere evitata. Essa, in realtà, è stata portata avanti da Spagna e Gran Bretagna, certamente con l'avallo dell’Amministrazione Bush, e mi dispiace che il presidente Berlusconi vi abbia aderito. Detto questo, resto dell’idea che Francia e Germania, quando si sono espresse negativamente riguardo ad un possibile conflitto, avrebbero dovuto anche cercare di unire l’Europa intorno alla loro posizione. Un’Europa divisa è un’Europa politicamente dimezzata nel suo rapporto con gli Usa».

L’Ulivo e una grande questione come la pace e la guerra. Le chiedo: c’è il rischio di una lacerazione e, a suo avviso, quale può essere il denominatore comune su cui è possibile attestarsi?
«Oggi mi pare che il centro-sinistra sia giustamente schierato contro la guerra, specie se essa fosse preventiva e unilaterale. È una posizione giusta, fondata, in quanto non vi sono elementi sufficienti da convincere che la guerra sia necessaria. Diciamolo chiaramente: l’Europa non si sente minacciata in questo momento dall’Iraq, anche se non esistono dubbi sul fatto che quello di Saddam Hussein sia un regime dispotico, tirannico e che certamente può nascondere anche armi non convenzionali, chimiche, missili... E devo dire che l’elenco fornito da Colin Powell delle innumerevoli violazioni da parte irachena della risoluzione 1441, è un elenco impressionante e molto documentato. L’Iraq potrebbe anche possedere armi nascoste che gli ispettori non hanno trovato, ma manca il motivo, vale a dire la convinzione che Saddam Hussein è alla vigilia dell’utilizzo di queste armi contro Paesi limitrofi o contro l’Occidente. E di questo non c’è evidenza. Il fattore di maggior peso citato dal segretario di Stato americano al Consiglio di Sicurezza, è il supposto legame tra il regime di Baghdad con il network terrorista di Al-Qaeda. Naturalmente, se quel rapporto fosse stato confermato o provato con evidenza, sarebbe stato possibile legare l’Iraq all’11 settembre, e quindi al rischio di altri attentati terroristici, al punto da giustificare un attacco all’Iraq nell’ambito della lotta al terrorismo. Questo è un punto cruciale. Ed è proprio su questo punto che non sono apparsi assolutamente convincenti gli elementi di fatto presentati da Powell. Hanno cercato in tutti i modi prove certe di questo legame ma non le hanno trovate. Per giustificare una guerra manca l’esistenza di una minaccia imminente dell’Iraq».

Veniamo al centro-sinistra.
«In queste circostanze, è giusto che si schieri contro la guerra. Se dovessero emergere elementi nuovi, convincenti, del pericolo imminente di Saddam Hussein contro l’Occidente; elementi di tale rilevanza da portare ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzasse anche l’intervento militare, ecco che allora il centro-sinistra si troverebbe in dovere di formulare un nuovo giudizio e ad esprimere una nuova posizione. So bene che nell’ambito della sinistra ci sono coloro che anche di fronte ad una risoluzione delle Nazioni Unite che darebbe legalità all’intervento militare, vorrebbero esprimersi contro. Tuttavia, a mio avviso dovremmo vedere il dettato della possibile risoluzione, prima di esprimere un giudizio negativo. Altrimenti, l’Italia si porterebbe al di fuori, essa stessa andando contro quelli che sono i principi sanciti dalla legalità internazionale che deriva da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza».

 


       Commentowww.unita.it



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