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15 Settembre, 2002
La sfida dell’obbligo decennale (di Maurizio Tiriticco)
Il saggio che segue fa parte del volume collettaneo F. Biancardi, G. Desideri (a cura di), Laboratorio scuola, Manna, Napoli, 2008

Provvedimenti che guardano lontano

L’avvio dell’anno scolastico 2007 è stato contrassegnato da due profondi cambiamenti, uno riguarda le innovazioni avviate dal Ministero, l’altro riguarda un forte rilancio dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. L’uno e l’altro sono assolutamente contestuali: il primo non può procedere senza il secondo, il secondo senza il primo. E si tratta di uno scenario assolutamente nuovo a cui mai il nostro Sistema di istruzione si è trovato di fronte. La novità consiste in queste due circostanze.

La prima riguarda il fatto che le innovazioni relative alla scuola dell’infanzia, all’intero primo ciclo ed all’innalzamento dell’obbligo di istruzione sono state redatte secondo le nuove indicazioni di cui al novellato Titolo V della Costituzione repubblicana. Per cui non è più competenza dello Stato dettare per ogni ordine a grado di scuola dettagliati programmi ministeriali assolutamente prescrittivi, ma solo traguardi terminali e linee di indirizzo; ed è competenza delle istituzioni scolastiche, ormai autonome da circa otto anni, realizzare curricoli di studio che consentano il raggiungimento di tali traguardi da parte di tutti gli alunni in ordine al principio che occorre garantire a ciascuno di essi quel “successo formativo” – come recita l’articolo 1 del Regolamento dell’autonomia scolastica – in ordine ai loro bisogni formativi, alle loro aspirazioni ed attese.

La seconda circostanza è contestuale con la prima. Proprio in forza della particolarità dei nuovi provvedimenti (i decreti relativi alla scuola dell’infanzia, al primo ciclo e all’obbligo decennale), le istituzioni scolastiche sono tenute ad esercitare per un intero biennio, negli anni scolastici 2007-08 e 2008-09, vere e proprie attività di ricerca/azione, in ordine all’autonomia organizzativa, didattica, di ricerca, sviluppo e sperimentazione di cui godono, per verificare se, come e perché quanto dettato dai decreti è effettivamente realizzabile ed in quale misura le loro indicazioni dovranno essere eventualmente corrette e implementate.

Per quanto riguarda l’autonomia scolastica, va sottolineato che questa non ha mai avuto un felice sviluppo, almeno per due ragioni: il lancio del ’99, con il Dpr 275, è avvenuto in una situazione ancora non chiara e non facile per quel che riguarda i rapporti tra l’amministrazione centrale e le istituzioni scolastiche. Di fatto, la vigenza dei programmi ministeriali, dei quadri orari, delle cattedre e delle classi consentiva solo parziali modifiche da parte delle scuole, nonostante la possibilità di fruire del 15% dell’orario complessivo del curricolo, per curvarlo alle effettive esigenze del territorio, degli alunni e delle loro famiglie. In effetti, da parte delle scuole si preferì in larga parte accedere ai finanziamenti con la proposta di progetti mirati i quali non sempre erano funzionali alla realizzazione delle finalità e degli obiettivi indicati dai programmi.

Nel 2001, con il rinnovato Titolo V, competenze e funzioni dell’amministrazione e delle istituzioni scolastiche sono state definitivamente chiarite e normate e le scuole avrebbero potuto avviarsi a vele spiegate verso l’innovazione. Però – e questa è la seconda ragione – si sono trovate a dover fronteggiare le innovazioni imposte dalla legge 53 (meglio nota come legge Moratti) le quali non solo non hanno tenuto in alcun conto quanto le scuole avevano già prodotto negli anni precedenti in termini di innovazione, ma hanno anche tentato di imporre soluzioni organizzative e didattiche assolutamente lontane da ogni pratica realizzazione. Pertanto, le scuole si sono trovate costrette ad utilizzare l’autonomia solo come arma di difesa dell’esistente e non come strumento di reale innovazione. Si sono così perduti anni preziosi per un reale rinnovamento del nostro Sistema si istruzione, e ciò mentre la dispersione non accennava a diminuire e l’Unione europea e l’Ocse insistevano nel richiamarci a quelle che sono le reali finalità e scadenze di un Sistema di istruzione in un Paese ad alto sviluppo che, nei confronti con gli altri Paesi partner dell’Unione, continuava a tenere il fanalino di coda.

Senza tregua… ma senza fretta!

Con i provvedimenti della scorsa estate si è dato un decisivo avvio ad una svolta, tanto attesa quanto necessaria. Si potrebbe anche considerare che i nuovi documenti normativi e i loro allegati non sono di per sé documenti esaltanti, ma ciò che più importa è la chiave di lettura di cui occorre disporre per poterli realizzare. In effetti, chi si aspettava documenti innovativi al cento per cento è rimasto deluso. Ma la scelta effettuata dall’attuale Governo e dall’attuale Ministero PI è stata un’altra. Quando per un anno intero si è parlato della politica del cacciavite, si intendeva proprio sottolineare l’eccezionalità della scelta che si voleva effettuare: cioè, di non proporre alle scuole ed al Paese una riforma a tutto tondo in una situazione assai complessa sotto il profilo educativo, culturale e professionale, con dei cambiamenti in atto nel mondo delle conoscenze e del lavoro che non sempre è facile intercettare ed interpretare; e di procedere, invece, su di un duplice binario, quello di cancellare e/o di attenuare le innovazioni più nefaste attuate dalla Moratti per andare incontro alle esigenze primarie delle scuole, in relazione ai profili organizzativi e didattici, e lanciare alle medesime dei segnali di nuovi possibili percorsi sui quali coinvolgerle direttamente in forza delle responsabilità che derivano loro da una effettiva attuazione dell’autonomia.

Per questo insieme di ragioni, si doveva procedere con una ricetta nuova, che potremmo definire del senza tregua, ma senza fretta. Senza tregua perché occorreva, ed occorre, restituire con immediatezza alle scuole quella autorità e quella responsabilità che la nuova Costituzione riconosce loro; senza fretta, perché un serio e profondo processo riformatore richiede tempi distesi, non può essere compiuto dall’alto, ma solo con il concorso delle scuole stesse, delle loro componenti (personale educativo, famiglie, studenti) e delle istituzioni del territorio per quanto concerne assetti programmatori, organizzativi, finanziari. La questione che era sul tappeto all’inizio della presente Legislatura era quindi la seguente: rovesciare le logiche centralistiche ereditate da un passato neanche tropo lontano ed avviare processi che solo sul territorio hanno la loro immediata verificabilità. Altre due variabili sono state attentamente considerate: la prima è la velocità con cui i saperi, le conoscenze, le competenze cambiano in tutte le società ad alto sviluppo, per cui ogni legge dettata dall’alto finirebbe soltanto con il creare problemi invece di risolverli; la seconda è la necessità di “aprire all’Europa” in considerazione del fatto che un Sistema di istruzione che, pur sempre nazionale, non sia capace di confrontarsi con altri sistemi, è condannato non solo a chiudersi a riccio ma anche a non riuscire a dare alcuna prospettiva credibile di lavoro e di studio ai suoi giovani.

Le ragioni dell’obbligo decennale

Con le chiavi di lettura che sono state adottate, una delle questioni più importanti ed impellenti che occorreva affrontare e risolvere era quella dell’innalzamento dell’obbligo di istruzione. Se ne parlava da anni perché è da tempo che questa necessità si è venuta facendo sempre più impellente, tant’è vero che il Governo di centrosinistra nel gennaio del ’99 varò quella legge 9 con cui l’obbligo veniva innalzato dai 14 ai 15 anni di età, ma con il chiaro proposito di elevarlo a 16 nel contesto di un riordino complessivo dell’intero sistema di istruzione. Tale percorso, com’è noto, venne bloccato dalla legge Moratti con la quale, mentre da un lato veniva assicurato a tutti quel diritto dovere all’istruzione e alla formazione professionale “per almeno dodici anni o, comunque, fino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età” (art. 2, 1, c della legge 53/03), dall’altro si costringeva un adolescente a scegliere se, alla fine della scuola media, accedere nei percorsi liceali o a quelli della formazione professionale. Il fatto poi che i percorsi dell’istruzione e quelli della formazione fossero di pari dignità costituiva una dichiarazione di principio, un auspicio, più che un impegno per una sua effettiva realizzazione. Ed il fatto che sia competenza esclusiva dello Stato “la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. Cos. 117, c. 2) non incide minimamente sul principio che sono le Regioni ad avere la competenza esclusiva in materia di istruzione e formazione professionale (art. Cos. 117, c. 3).

La parentesi morattiana, fortunatamente, si è chiusa ed ora è toccato alla nuova maggioranza riordinare l’intero sistema di istruzione garantendo che i nostri sedicenni raggiungano conoscenze e competenze tali da poter non solo affrontare gradi più elevati di studio o di formazione professionale, ma soprattutto competere con i loro coetanei europei in un mondo del lavoro sempre più globalizzato e sempre più esigente. Ed è in questo scenario del tutto nuovo – ed assolutamente assente nella legislazione della Moratti – che sono stati presi i provvedimenti per innalzare l’obbligo di istruzione.

L’operazione non è stata assolutamente facile. Lo sarebbe stata di più qualora la si fosse attuata in un contesto complessivo di riforma sia del sistema dei licei che del sistema dell’istruzione tecnica e professionale. Ma tale riordino riguarda tempi lunghi e dovrà essere pronto per l’anno scolastico 2009-10 e sarebbe stato impossibile fare attendere i nostri giovani ancora due anni. Basti ricordare che l’istruzione obbligatoria fino ad età postelementari avanzate interessa tutti i Paesi membri dell’Unione europea da molti più anni rispetto a quella del nostro Paese che ha visto la luce solo nel ’47, dal punto di vista normativo con l’articolo 34 della Costituzione, e nell’anno scolastico 1963-64 dal punto di vista effettivo con l’attuazione della legge 1859 del ’62.

Può essere interessante ricordare che l’istruzione obbligatoria si conclude a 18 anni nel Belgio fiammingo e francese, in Ungheria, parzialmente in Olanda e in Germania, a 16 anni nella maggioranza dei Paesi europei (Bulgaria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Regno unito, Romania Slovacchia, Spagna, Svezia) a 15 in Austria, Belgio tedesco, Cipro, Grecia, Lussemburgo, Portogallo, Repubblica ceca, Slovenia. I percorsi, ovviamente, non sono tutti omogenei ed in alcuni vi è il concorso della formazione professionale. Si tratta di indicazioni assolutamente sommarie e, per i singoli casi, è opportuno accedere direttamente alle fonti. La rete Eurydice è quella più accreditata, anche perché da quest’anno costituisce parte del Programma comunitario per l’apprendimento permanente.

Le coordinate del nuovo obbligo

L’impegno assunto dal Governo di centrosinistra per l’innalzamento dell’obbligo di istruzione trovò la sua prima formulazione nella Finanziaria 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296). Nel comma 622 dell’articolo 1 leggiamo testualmente: ”L’adempimento dell’obbligo di istruzione deve consentire… l’acquisizione dei saperi e delle competenze previste dai curricula relativi ai primi due anni degli istituti di istruzione secondaria superiore, sulla base di un apposito Regolamento adottato dal MPI… Nel rispetto degli obiettivi di apprendimento generali e specifici previsti dai predetti curricula, possono essere concordati tra il MPI e le singole Regioni percorsi e progetti che, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, siano in grado di prevenire e contrastare la dispersione e di favorire il successo nell’assolvimento dell’obbligo di istruzione. Le strutture formative che concorrono alla realizzazione dei predetti percorsi e progetti devono essere inserite in un apposito elenco predisposto con Decreto del MPI…”. E nel comma 624 leggiamo: “Fino alla messa a regime di quanto previsto nell’articolo 622, proseguono i percorsi sperimentali di istruzione e formazione professionale, di cui all’articolo 28 del dlgs 226/2005…”.

Dal dettato legislativo si evince che: a) il MPI è tenuto ad emanare un regolamento con cui l’innalzamento dell’obbligo di due anni si deve effettuare negli istituti secondari di secondo grado senza modificare i curricoli vigenti; ciò perché la riforma complessiva dell’istruzione secondaria di secondo grado si compirà, come già detto, entro l’anno scolastico 2009-10; b) è possibile innalzare l’obbligo anche mediante percorsi e progetti da concordare tra il MPI e le singole Regioni; c) proseguono quei percorsi sperimentali triennali che furono attivati in seguito all’Accordo quadro Stato-Regioni del 19 giugno 2003 per fronteggiare l’incresciosa situazione in cui si venivano a trovare i quattordicenni che, in seguito alla abrogazione della legge 9/99 (innalzamento dell’obbligo di un anno) si trovavano nella assurda situazione di non essere più obbligati a proseguire gli studi, ma ad essere nuovamente obbligati a riprenderli, compiuto il 15° anno di età, per adempiere all’obbligo formativo fino ai 18 anni (articolo 68 della Legge 144/99).

Si noterà che l’innalzamento dell’obbligo, come formulato nella Finanziaria, tendeva a mediare tra proposte diverse e a volte contrastanti. Da un lato coloro che possiamo definire i “puristi” intendevano che l’innalzamento dovesse effettuarsi esclusivamente nell’istruzione disciplinata dallo Stato, anche in previsione di un ulteriore innalzamento fino ai 18 anni. Dall’altro c’erano coloro che per diverse ragioni intendevano che potesse essere effettuato “anche” nella formazione professionale regionale o, comunque, con percorsi integrati tra il sistema statale e quello regionale. Si possono fare ulteriori considerazioni: a) la preoccupazione legittima delle Regioni di perdere in un sol colpo due anni di formazione professionale; b) il fatto che sarebbe opportuno che i nuovi obbligati possano fruire anche di apporti da parte della formazione professionale (in termini di strutture, metodologie, attività laboratoriali), purché la titolarità dei percorsi sia sempre dell’istruzione; c) l’istruzione professionale nel nostro Paese soffre da tempo di un’anomalia, del fatto, cioè, che è sempre percepita come un percorso di risulta e di recupero nei confronti di soggetti meno dotati. E si tratta di una caratteristica che non solo non risponde affatto alle esigenze dei tempi in cui mano e mente apprendono sempre in forme interagenti, ma non trova riscontro nella formazione professionale dei più importanti Paesi dell’Unione europea; d) in effetti, il sottrarre alla formazione professionale la fascia di età 14-16 significa offrire un forte input non solo per superare quella percezione negativa di cui soffre, ma anche per progettare percorsi di più elevata qualità, anche in vista della istituzione dell’Alta istruzione tecnica nello scenario di un riordino dei Poli formativi.

Il Regolamento e gli assi culturali

Con il DM n. 139 del 22 agosto 2007 è stato emanato il Regolamento relativo all’adempimento dell’obbligo di istruzione, accompagnato da tre allegati: un documento tecnico; un secondo contenente gli assi culturali che caratterizzano lo sviluppo degli insegnamenti; un terzo contenente le competenze di cittadinanza da raggiungere da parte degli studenti. In effetti non contiene grosse novità procedurali rispetto a quanto già tracciato dalla Finanziaria, indica le finalità dell’operazione e ne descrive gli ambiti. I saperi e le competenze previste dai curricoli relativi ai primi due anni degli istituti di istruzione secondaria superiore sono articolati in conoscenze e abilità, da conseguire lungo quattro assi culturali pluridisciplinari con i quali viene assicurata l’equivalenza formativa dei vigenti percorsi. Il che costituisce la prima importante innovazione: gli assi culturali devono consentire il superamento di quelle differenze che caratterizzano i vigenti programmi di studio e devono costituire una sorta di catalizzatore, in forza del quale l’alunno che adempirà all’obbligo nell’istruzione professionale non sarà diverso, in termini di competenze acquisite, dall’alunno dell’istruzione tecnica, scientifica e classica.

I quattro assi sono i seguenti: dei linguaggi; il matematico; lo scientifico-tecnologico; lo storico-sociale. Ciascuno è così organizzato: vengono indicate le competenze relative a ciascun asse ed a ciascuna competenza afferiscono determinate abilità/capacità, a loro volta raggiungibili attraverso l’acquisizione di determinate conoscenze. A questo proposito, in considerazione del fatto che la letteratura specialistica non è uniforme nel definire i suddetti concetti, è forse opportuno chiarire secondo quali accezioni questi termini sono stati adottati, in ordine a quanto indicato dalle scelte operate in sede di Unione europea.

Secondo il Quadro Europeo delle Qualifiche (si veda la Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio europeo relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente, del 5 settembre 2006), la competenza è “la capacità dimostrata di utilizzare le conoscenze, le abilità e le attitudini (e/o atteggiamenti) personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale. Tali competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia”, che costituiscono i fondamenti primari della personalità di un cittadino. E’ opportuno aggiungere che, nel medesimo documento, le competenze in uscita dai diversi gradi di istruzione formazione vengono distribuite in otto livelli, ai quali si devono attenere tutti gi Stati membri: il primo riguarda le competenze richieste al termine degli studi obbligatori, il secondo le qualifiche e i diplomi che si conseguono a 17 anni, il terzo le qualifiche e i diplomi che si conseguono a 18 anni, il quarto le qualifiche e i diplomi che si conseguono a 19 anni, e così via fino all’ultimo che riguarda le alte specializzazioni.

Le conoscenze sono “il risultato della assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento e costituiscono l’insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative ad un dato ambito di studio o di lavoro”.

L’abilità è “la capacità di applicare conoscenze e di utilizzare il know-how per svolgere compiti e risolvere problemi. Sono cognitive (l’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) e pratiche (quando implicano la destrezza manuale e l’utilizzo di metodi, materiali, attrezzature e strumenti”.

Da quanto detto ed esplicitato consegue che i consigli di classe, nell’atto della progettazione, devono in primo luogo “rileggere” le rispettive discipline di competenza per operare quelle curvature necessarie ad esaltarne quei contenuti curricolari che consentano agli obbligati di raggiungere sia le conoscenze di cui ai vigenti programmi sia quelle competenze che sono ora richieste come filtro caratterizzante il concetto dell’equivalenza formativa. In altre parole, gli insegnanti afferenti a ciascun asse dovranno individuare quegli elementi pluridisciplinari che costituiranno l’ossatura della progettazione che dovrà avere un respiro biennale. Occorrerà individuare i nuclei fondanti delle singole discipline e costruire tutti i collegamenti con le competenze che scandiscono ciascun asse. Non si tratta affatto di un lavoro semplice, ma occorre pensare che abbiamo due anni di tempo per avviare quelle ricerche-azioni che consentano di verificare la validità o meno delle soluzioni indicate dal relativo allegato e di apportarvi tutte le modifiche che i due anni di effettiva sperimentazione richiederanno.

Gli insegnanti sono indirettamente invitati a riconsiderare il valore ed il peso delle discipline di competenza in forza del fatto che queste non hanno più solo il carattere esclusivo e propedeutico rispetto ad un determinato percorso di studi, ma anche un carattere propedeutico al ventaglio di scelte che lo studente è chiamato ad operare una volta concluso l’obbligo. Ricorriamo ad un esempio limite. L’insegnante di latino e l’insegnante di matematica, per esigendo tutto quel che concerne gli obiettivi disciplinari di cui ai vigenti programmi, dovranno anche considerare se lo studente, pur non avendo conseguito in toto la preparazione richiesta dagli specifici programmi di latino e di matematica di quel tipico biennio, ha raggiunto, però, quelle competenze di cui ai due assi culturali. Il fatto, cioè, che il biennio è essenzialmente unitario ed orientativo (più che specifico e propedeutico) deve consentire, appunto, che lo studente sia debitamente orientato verso quel percorso successivo che più gli è congeniale. Il che costituisce una novità assoluta per gli attuali bienni che, fin dalla loro istituzione, sono sempre stati considerati come propedeutici solo a se stessi… o meglio, ai trienni di corrispondenza.

Le materie specialistiche e quelle cosiddette di indirizzo afferiranno all’asse che è con loro compatibile. Va infine aggiunto che i quattro assi non costituiscono un letto di Procuste, ma che dipenderà dalle scelte dei singoli collegi organizzare e declinare i percorsi pluridisciplinari in relazione alle finalità complessive dell’obbligo ed all’autonomia organizzativa, didattica, di ricerca e sviluppo di cui le istituzioni scolastiche godono.

Le competenze di cittadinanza attiva

Le novità del biennio obbligatorio non si esauriscono con le competenze pluridisciplinari dei quattro assi, in quanto costituisce una finalità forse più importante, quella di consegnare alla società un cittadino autonomo e responsabile, consapevole dei suoi doveri e dei suoi diritti. Si tratta di un’area di intervento nei confronti della quale la nostra scuola è sempre stata un po’ riluttante, perché le conoscenze disciplinari hanno fatto sempre la parte del leone. Basti ricordare che, quando nel lontano 1958 venne introdotta l’Educazione civica, per tutta una serie di motivi che sarebbe ovvio ricordare, questa materia non ha mai goduto di buona salute. E tutti i tentativi di renderla più efficace e rinnovarla (si vedano i lavori della Commissione istituita dal Ministro Lombardi nel 1996) sono sempre andati incontro ad un generalizzato fallimento, fatte salve, ovviamente, le dovute eccezioni.

Una scuola in un regime democratico non può non “insegnare” l’esercizio della democrazia. Ma la nostra scuola – o meglio, i suoi diversi spezzoni che si sono venuti via via aggiungendo negli anni – si è sempre posta come obiettivo le conoscenze, per di più quelle rigidamente divise per discipline, più che le competenze che fanno di un alunno anche un buon cittadino. A tale carenza vuole dare una chiara risposta il nuovo obbligo di istruzione. Ed anche in questo caso occorre citare l’Unione europea, ricordando pur sempre che questa non è un organismo “altro”, ma un’organizzazione della quale facciamo parte anche noi italiani. E sono i nostri esperti di problemi educativi che discutono e sottoscrivono insieme ad altri partner quei documenti che, in una percezione diffusa e scorretta, sembrano essere imposizioni di un’entità lontana ed astratta.

L’Unione europea ha cominciato solo tardi ad occuparsi di istruzione. Quando nel ’57 con i Trattati di Roma venne costituita da parte del primo nucleo dei sei Stati promotori la Comunità Economica Europea, il tema dell’economia e del lavoro era assolutamente centrale e con esso quello della formazione professionale, sul quale nel corso degli anni la Comunità ha prodotto iniziative di un grande interesse ai fini di giungere a costruire percorsi professionali che riflettessero la realtà nuova di un mondo del lavoro sovranazionale. Solo con il Trattato di Maastricht, nel ’91, quando la CEE assunse una dimensione politica di più ampia portata, assumendo anche la denominazione di UE, anche il tema dell’istruzione entrò a pieno titolo nelle politiche europee.

Le competenze di cittadinanza nei documenti dell’Unione europea

Ed è a partire da quegli anni che l’istruzione che si realizza in ogni Paese membro non può ignorare quanto avviene negli altri, anche considerando che la cultura, le conoscenze, le competenze di anno in anno assumono sempre più caratteristiche profondamente transnazionali. In tale contesto l’Unione europea ha pieno titolo per proporre a tutti i Paesi membri finalità ed obiettivi che siano condivisi, se non comuni, comunque nel pieno rispetto delle tradizioni e delle caratteristiche dei sistemi scolastici di ciascun Paese.

Non è, quindi, un caso, che l’Unione europea si faccia carico di indicare ai Paesi membri quali possano essere le competenze che ogni cittadino dell’Unione deve acquisire per esercitare il suo diritto di cittadinanza attiva. E di questa finalità sono in primo luogo le scuole dell’obbligo europee che si debbano fare carico. Non sono competenze in sé nuove, in quanto presenti ed attive in ogni società democratica, ma lo sono per il fatto che le scuole dell’obbligo, appunto, devono assumerne in pieno la responsabilità annoverandole tra gli obiettivi che è solita perseguire. Ovviamente, laddove una scuola non ha mai perseguito con decisione obiettivi di questo tipo, privilegiando le conoscenze disciplinari, la questione delle competenze di cittadinanza acquista un valore nuovo e per certi versi dirompente, in quanto può mettere in crisi consuetudini consolidate.

Gli esperti europei, dopo un dibattito ampio e le consultazioni che si è soliti attivare in ricerche di questo tipo, sono giunti ad individuare otto competenze chiave per l’apprendimento permanente e per l’esercizio della cittadinanza attiva, le quali sono state descritte e debitamente dettagliate in un documento conclusivo, adottato il 18 dicembre 2006 come Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio. Le competenze sono le seguenti.

Comunicazione nella madre lingua
Comunicazione nelle lingue straniere
Competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologie
Competenza digitale
Imparare ad imparare
Competenze interpersonali, interculturali e sociali e competenza civica
Imprenditorialità
Espressione culturale

Balza con evidenza che si tratta di competenze che riguardano la persona in quanto tale e che vanno oltre le conoscenze disciplinari anche se, ovviamente, non ne possono prescindere. Nel documento sono anche specificati e dettagli di queste competenze: il pensiero critico, la creatività, lo spirito di iniziativa, la capacità di risolvere problemi, di valutare i rischi, di operare scelte e assumere decisioni. Vi sono anche riferimenti alla vita interiore del soggetto, quali la capacità di gestire in modo costruttivo sentimenti ed emozioni, alla vita di relazione, alla capacità di interagire positivamente nei gruppi e nelle organizzazioni. Si tratta di caratteristiche forti sulle quali l’elemento più forte e coagulante è forse quel richiamo ad imparare ad imparare, competenza che in una società in continuo cambiamento, difficile e complessa, è in grado di garantire quei continui adattamenti e riadattamenti che a ciascun di noi vengono richiesti.

Le competenze di cittadinanza nella scelta italiana

E non è un caso che, nella lista delle competenze chiave di cittadinanza che concludono l’obbligo di istruzione nel nostro Paese, figuri al primo posto quell’imparare ad imparare che costituisce il passepartout più importante per l’accesso in una società che impone sempre più rapidi cambiamenti. Ne deriva per ciascun cittadino la necessità di comprenderli e di sapersi adeguare: e ciò non solo per ciò che riguarda il mondo degli studi ulteriori e del lavoro ma anche l’inserimento positivo e produttivo nella società civile. La democrazia ha un prezzo: la partecipazione di tutti, convinta e produttiva.

Il Sistema di istruzione oggi in ogni Paese avanzato non può più limitarsi ad erogare quei saperi disciplinari che una volta erano essenziali per accedere in una società in cui era indispensabile leggere, scrivere e far di conto, ma solo sotto il profilo puramente strumentale. Oggi quei saperi disciplinari non solo si sono fatti più complessi ma sono anche diventati literacy, numeracy e problem solving, ciascuno con forti apporti pluridisciplinari che consentono l’uso di competenze di base sotto un profilo soprattutto funzionale, cioè attivo e produttivo.

In altri termini, le conoscenze disciplinari su cui la nostra scuola secondaria di primo e di secondo grado si sono sempre cimentate – ed anche con successo, quando i tempi erano ben diversi da quelli dell’oggi – non sono più sufficienti e devono essere arricchite da quelle competenze di cittadinanza a cui l’Unione europea ci richiama. Per questo insieme di ragioni, le competenze per l’esercizio della cittadinanza attiva costituiscono il fine ultimo e più pregnante di ogni istruzione obbligatoria di base. Si tratta di competenze che coronano quelle indicate nei quattro assi e che si innestano specificamente su quello storico-sociale. Siamo tutti convinti che nell’Italia postrisorgimentale costituisse per ogni suddito un fattore indispensabile di conoscenza tutta la vicenda che andava dal Congresso di Vienna alle guerre di indipendenza. Siamo altrettanto convinti che oggi per ciascun cittadino che vive ed opera in una società aperta, complessa e globalizzata, la conoscenza anche puntuale della vicenda storica ha poco senso se non lo aiuta concretamente ad orientarsi in una realtà sincronica in cui leggere ciò che accade in Afganistan o le decisioni di un Consiglio di sicurezza assume un’importanza primaria.

E’, a nostro avviso, l’asse storico sociale il nucleo fondante su cui nel biennio obbligatorio il consiglio di classe può avviare i suoi studenti verso l’acquisizione delle competenze di cittadinanza. Nella curvatura che è stata operata sui suggerimenti che ci provengono dalla citata Raccomandazione del 18 dicembre 2006, la scelta effettuata dal nostro Ministero PI nella indicazione di tali competenze ha voluto tener conto della persona considerata nelle sue tre fondamentali dimensioni, quella della costruzione del sé, quella delle relazioni con gli altri, quella della costruzione di rapporti conoscitivi e produttivi con la realtà esterna, fisico-materiale e socio-istituzionale. Il prospetto delle competenze chiave di cittadinanza è, quindi, il seguente.

Costruzione del sé
Imparare ad imparare
Progettare
Relazioni con gli altri<
Comunicare
comprendere
rappresentare
Collaborare e partecipare
Agire in modo autonomo e responsabile
Rapporto con la realtà
Risolvere problemi
Individuare collegamenti e relazioni
Acquisire ed interpretare l’informazione

Si noterà che si tratta di competenze che tradizionalmente non vengono “insegnate” né devono essere “insegnate” oggi. Costituendo, però, il bagaglio più significativo che il sedicenne poi porterà con sé come patrimonio personale al fine di sapersi orientare e saper scegliere per i percorsi successivi, sarà compito del consiglio di classe in primo luogo costituire dei punti di attenzione nuovi nei confronti dei propri alunni, che vanno oltre le attenzioni disciplinari di sempre e che non sono affatto messe in discussione. In secondo luogo, nella misura in cui tali competenze vengono assunte dal consiglio di classe fin dal primo giorno del percorso biennale come traguardi irrinunciabili, l’attenzione si trasformerà in sollecitazione, individuale e collettiva, e nelle attività laboratoriali che dovrebbero costituire il nucleo fondante dell’intero percorso biennale tali competenze verranno stimolate, considerate, vagliate, implementate, accertate, valutate, se si vuole, ovviamente non con il metro tradizionale della votazione decimale.

La certificazione

Al termine del biennio, finché il processo riformatore non rinnoverà l’intero secondo ciclo, restano ferme le valutazioni tradizionali disciplinari, quelle che i documenti di valutazione vigenti, registri degli alunni e pagelle, consentono ed autorizzano. L’attuale innovazione, comunque, si eserciterà su un duplice binario: da un lato i consigli di classe eserciteranno le operazioni di scrutinio di rito; dall’altro, proprio in forza del fatto che il nuovo biennio è unitario, articolato e soprattutto orientativo, ed in forza dell’equivalenza dei percorsi che i quattro assi culturali e le competenze di cittadinanza autorizzano, gli scrutini dovranno concludersi con giudizi motivati per l’orientamento e con la certificazione delle competenze con cui si dichiara che lo studente ha adempiuto o meno all’obbligo di istruzione.

Sulla questione delle modalità della certificazione saranno le Linee guida, di cui all’articolo 5 del Regolamento a dare “indicazioni in merito ai criteri generali per la certificazione dei saperi e delle competenze… ai fini dei passaggi a percorsi di diverso ordine, indirizzo e tipologia nonché per il riconoscimento dei crediti formativi, anche come strumento per facilitare la permanenza nei percorsi di istruzione e formazione” (art. 4, c. 2 del Regolamento).

Il fatto che il Regolamento non si sia espresso in merito alla certificazione dimostra che si tratterà di un’operazione assolutamente non facile. Possiamo ricordare che sulla certificazione delle competenze il Ministero PI per ben due volte negli ultimi anni non ha dato una buona prova di sé. E’ noto che ancora oggi, a dieci anni dal varo della riforma degli esami di maturità (legge 425/96), le commissioni non dispongono ancora di un modello di certificazione ed utilizzano ancora il modello varato con il Dm 450/98 che aveva carattere provvisorio e sperimentale e che avrebbe avuto la durata di soli due anni (sic!). Ed è anche nota la vicenda della certificazione da effettuarsi alla fine della scuola primaria ed alla fine della scuola media; la prima, varata in un primo tempo con il portfolio morattiano, venne poi “ritirata” con la nota del 9 febbraio 2006; la seconda è passata in cavalleria, stante l’azzeramento di tutte le iniziative di marca morattiana. Il fatto è che accertare e certificare competenze non è la stessa cosa che verificare e valutare apprendimenti. Questi ultimi possono essere valutati in negativo o in positivo; le competenze, invece, o sono acquisite o non lo sono: non esistono competenze scarse o insufficienti. I nodi che l’amministrazione dovrà sciogliere sono i seguenti: a) indicare le modalità della certificazione; b) scegliere se è possibile attuare una progressione della competenza, una volta che è stata accertata, in più livelli (ad esempio, con gli aggettivi essenziale, esperto, eccellente); c) scegliere se l’assolvimento dell’obbligo può essere dichiarato solo se le competenze da accertare e certificare devono essere tutte quelle proposte oppure solo una loro percentuale. Si tratterà di una scelta non facile, almeno per due motivi: è la prima volta che la nostra amministrazione e la nostra scuola si trovano di fronte al rilascio di certificazioni; la letteratura docimologia sull’argomento non ci può aiutare in quanto non è affatto univoca su tale materia.

I raccordi con la scuola media

Una questione nient’affatto di poco conto è quella che riguarda i rapporti che il biennio obbligatorio dovrà effettuare con la scuola media la quale – è bene ricordarlo – non ha più un carattere conclusivo in tale materia. Una delle difficoltà in cui tale grado di scuola si è sempre trovata è data dal fatto che, istituita per norma (si vedano la legge 1859 ed i “nuovi” programmi del ’79) come conclusiva del percorso obbligatorio ma nel contempo come propedeutica a studi ulteriori, è sempre stata costretta tra la necessità di dichiarare l’assolvimento dell’obbligo e quella di preparare per studi ulteriori. Quando forse sarebbe stato più opportuno che si limitasse a certificare le competenze effettivamente accertate. Ma il discorso sulle competenze si è venuto maturando nel nostro Sistema di istruzione solo negli ultimi anni. Nel nostro Paese solo nella formazione professionale si sono promosse, accertate e certificate competenze, anche per gli apporti da parte dell’Unione europea che dal ’57 – come abbiamo già detto – si è occupata di tale materia.

Con l’innalzamento dell’obbligo, la scuola media viene finalmente liberata della ambiguità che l’ha sempre caratterizzata e può assolvere pienamente il suo ruolo di segmento intermedio dell’intera scuola obbligatoria. Il che comporta, comunque, un cambiamento profondo nei concreti comportamenti degli insegnanti e dei consigli di classe. L’insistenza sulle singole discipline che di fatto – tranne rare eccezioni – ha sempre caratterizzato lo stile di lavoro degli insegnanti di questo grado di scuola, deve assolutamente cambiare, soprattutto perché è stata proprio questa insistenza a far sì che la scuola media costituisse una vera e propria strozzatura tra la scuola primaria e la scuola secondaria di secondo grado: nella scuola primaria l’orizzontalità pluridisciplinare ha sempre costituito una sua caratteristica e la sua forza; la secondaria superiore ha sempre offerto vaste gamme di opzioni, dalla formazione professionale regionale all’istruzione professionale statale fino agli studi classici. Nella scuola dell’intero primo ciclo le nuove Indicazioni cancellano la discontinuità tra la scuola primaria e la secondaria di primo grado e prevedono lo sviluppo degli insegnamenti lungo tre aree pluridisciplinari, quella linguistico-artistico-espressiva, quella storico-geografica e quella matematico-scientifico-tecnologica. Gli insegnamenti sono finalizzati a far raggiungere agli alunni traguardi complessivi (per l’infanzia, la quinta primaria e la terza media) e obiettivi di apprendimento (per la terza primaria, la quinta primaria e la terza media). Si tratta di una scelta assolutamente originale e nuova che dovrebbe permettere all’attuale scuola media di progettare e realizzare curricoli profondamente diversi da quelli attualmente vigenti (sia che si guardi ai programmi del ’79 sia che si guardi alle Indicazioni del Dlgs 59/04). Sarà opportuno, tuttavia, che le istituzioni scolastiche e gli insegnanti degli ultimi due gradi di scuola obbligatori avviino con tempestività tutti quei raccordi che sono necessari a rendere effettivo e praticabile il nuovo percorso che le nuove Indicazioni e il nuovo biennio obbligatorio hanno tracciato sia sotto il profilo normativo che sotto quello metodologico-didattico.

E’ stata lanciata una sfida di civiltà. Spetta alle scuole e ai loro insegnanti raccoglierla e vincerla!

Roma, ottobre 2007 Maurizio Tiriticco

 


       



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