15 Settembre, 2002
Io, Welby e la morte (di Carlo Maria Martini da Il Sole 24 Ore gennaio 2007)
Dedicato a chi (tra i cattolici) non capisce il caso Eluana, un bellissimo intervento del cardinale Carlo Maria Martini sul caso Welby.
Con la festa dell'Epifania 2007 sono entrato nel ventisettesimo anno di episcopato e
sto per entrare, a Dio piacendo, anche nell'ottantesimo anno di età. Pur essendo
vissuto in un periodo storico tanto travagliato (si pensi alla Seconda guerra
mondiale, al Concilio e postconcilio, al terrorismo eccetera), non posso non
guardare con gratitudine a tutti questi anni e a quanti mi hanno aiutato a viverli
con sufficiente serenità e fiducia.
Tra di essi debbo annoverare anche i medici e gli infermieri di cui, soprattutto a partire da un certo tempo, ho avuto bisogno per reggere alla fatica quotidiana e per prevenire malanni debilitanti. Di questi medici e infermieri ho sempre apprezzato la dedizione, la competenza e lo spirito di sacrificio. Mi rendo conto però,con qualche vergogna e imbarazzo, che non a tutti è stata concessa la stessa prontezza e completezza nelle cure. Mentre si parla giustamente di evitare ogni forma di "accanimento terapeutico" , mi pare che in Italia siamo ancora non di rado al contrario, cioè a una sorta di "negligenza terapeutica " e di "troppo lunga attesa terapeutica".
Si tratta in particolare di quei casi in cui le persone devono attendere troppo a lungo prima di avere un esame che pure sarebbe necessario o abbastanza urgente, oppure di altri casi in cui le persone non vengono accolte negli ospedali per mancanza di posto o vengono comunque trascurate. È un aspetto specifico di quella che viene talvolta definita come "malasanità" e che segnala una discriminazione nell'accesso ai servizi sanitari che per legge devono essere a disposizione di tutti allo stesso modo.
Poiché, come ho detto sopra, infermieri e medici fanno spesso il loro dovere con
grande dedizione e cortesia, si tratta perciò probabilmente di problemi di struttura
e di sistemi organizzativi. Sarebbe quindi importante trovare assetti anche
istituzionali, svincolati dalle sole dinamiche del mercato, che spingono la sanità a
privilegiare gli interventi medici più remunerativi e non quelli più necessari per i
pazienti, che consentano di accelerare le azioni terapeutiche come pure l'esecuzione
degli esami necessari.
Tutto questo ci aiuta a orientarci rispetto a recenti casi di cronaca che hanno
attirato la nostra attenzione sulla crescente difficoltà che accompagna le decisioni
da prendere al termine di una malattia grave. Il recente caso di P.G. Welby, che con
lucidità ha chiesto la sospensione delle terapie di sostegno respiratorio,
costituite negli ultimi nove anni da una tracheotomia e da un ventilatore
automatico, senza alcuna possibilità di miglioramento, ha avuto una particolare
risonanza. Questo in particolare per l'evidente intenzione di alcune parti politiche
di esercitare una pressione in vista di una legge a favore dell'eutanasia. Ma
situazioni simili saranno sempre più frequenti e la Chiesa stessa dovrà darvi più
attenta considerazione anche pastorale.
La crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure
in condizioni un tempo impensabili. Senz'altro il progresso medico è assai positivo.
Ma nello stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più
efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i
trattamenti quando ormai non giovano più alla persona.
È di grandissima importanza in questo contesto distinguere tra eutanasia e
astensione dall'accanimento terapeutico, due termini spesso confusi. La prima si
riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la
morte; la seconda consiste nella «rinuncia ... all'utilizzo di procedure mediche
sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo» (Compendio Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 471). Evitando l'accanimento terapeutico «non si vuole ... procurare la morte: si accetta di non poterla impedire» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.2.278)assumendo così i limiti propri della condizione umana mortale.
Il punto delicato è che per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci
si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il
comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le
condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In
particolare non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete
- anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite - di valutare se
le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono
effettivamente proporzionate.
Del resto questo non deve equivalere a lasciare il malato in condizione di
isolamento nelle sue valutazioni e nelle sue decisioni, secondo una concezione del
principio di autonomia che tende erroneamente a considerarla come assoluta. Anzi è
responsabilità di tutti accompagnare chi soffre, soprattutto quando il momento della
morte si avvicina. Forse sarebbe più corretto parlare non di «sospensione dei
trattamenti» (e ancor meno di «staccare la spina»), ma di limitazione dei
trattamenti. Risulterebbe così più chiaro che l'assistenza deve continuare,
commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando per esempio la
sedazione del dolore e le cure infermieristiche. Proprio in questa linea si muove la
medicina palliativa, che riveste quindi una grande importanza.
Dal punto di vista giuridico, rimane aperta l'esigenza di elaborare una normativa
che, da una parte, consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato)
delle cure - in quanto ritenute sproporzionate dal paziente - , dall'altra protegga
il medico da eventuali accuse (come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio),
senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell'eutanasia. Un'impresa
difficile, ma non impossibile: mi dicono che ad esempio la recente legge francese in
questa materia sembri aver trovato un equilibrio se non perfetto, almeno capace
direalizzare un sufficiente consenso in una società pluralista.
L'insistenza sull'accanimento da evitare e su temi affini (che hanno un alto impatto
emotivo anche perché riguardano la grande questione di come vivere in modo umano la morte) non deve però lasciare nell'ombra il primo problema che ho voluto
sottolineare, anche in riferimento alla mia personale esperienza. È soltanto
guardando più in alto e più oltre che è possibile valutare l'insieme della nostra
esistenza e di giudicarla alla luce non di criteri puramente terreni, bensì sotto il
mistero della misericordia di Dio e della promessa della vita eterna.
 
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