15 Settembre, 2002
Un matrimonio e Vivere con la suocera , due racconti di Maria Pola
Quando mia suocera aveva circa sessantacinque anni.....Venticinque anni io, ventiquattro lui
Un matrimonio e Vivere con la suocera , due
racconti di Maria Pola
Quando mia suocera aveva circa sessantacinque
anni.....Venticinque anni io, ventiquattro
lui
Quando mia suocera aveva circa sessantacinque
anni, io ne avevo
trenta e la ricordo così: una bella donna,
con i capelli non
più scuri, ma non ancora completamente bianchi,
ben tenuta
nell’aspetto, ma un po’ vistosa nel modo
di porsi e di vestire.
Viveva in casa con me e mio marito, in una
stanzetta che io chiamavo”el
camaréen del péegor*” e insieme condividevamo
i pasti.
Non andavamo d’accordo, perché lei si imponeva
e si intrometteva nella
mia vita e tanto meno condividevamo il modo
di condurre la casa. L’ho
sempre considerata una specie di arpia dalle
mani bucate, capricciosa al
punto che, se mi comperavo un abito o un
paio di scarpe, indispensabili
perché andavo a lavorare, dovevo regalarli
anche a lei, per evitare litigi e
discussioni. Chissà perché preferiva i nostri
soldi, non usava mai i suoi,
anzi li nascondeva. Mi costrinse a farmi
furba o, per meglio dire, a farmi
giustizia da sola: infatti, una volta scoperto
il nascondiglio, mi riappropriavo
di quanto avevo speso per lei. Lei comandava,
dirigeva ogni cosa
e prendeva decisioni. Non riuscii mai a farle
capire che non mi andava
che, subito dopo pranzo, cominciasse a preparare
la cena, anche se ero
ben consapevole del perché: le restava così
tutto il pomeriggio libero e
lei lo trascorreva sulla porta di casa, lavorando
a maglia e spettegolando
con le vicine. Proprio ciò che io detestavo.
Così, ogni sera, il mio rientro
dal lavoro coincideva con vane discussioni:
trovavo la casa come l’avevo
lasciata, con niente di fatto, con le tute
da lavoro di mio marito lasciate a
Vivere con la suocera
marcire nel mastello, con la minestra stracotta
e la solita, sbrigativa fetta
di prosciutto nel piatto. Eppure, sicuramente,
aveva trovato il tempo per
curiosare nel mio armadio, mostrando le mie
cose, di cui ero gelosa,
alla sua amata nipote ed anche questo mi
faceva imbestialire. Il nostro
rapporto era indubbiamente gramo, eppure
mia fi glia adorava questa
nonna con cui trascorreva la maggior parte
del suo tempo. Non potevo
fare diversamente perché andavo a lavorare.
Ma anche questo mi preoccupò,
soprattutto in quel periodo in cui mia suocera
sembrò aver perso
la parola e, ben presto, la bambina disimparò
a parlare perché il suo
unico modello era diventata proprio la nonna.
Decisi di licenziarmi.
Ancora adesso, quando parlare di mia suocera
mi fa venire l’orticaria,
sono davvero soddisfatta della mia decisione
di cambiare casa, per crearmi
una vita con mio marito e mia fi glia.
A mia suocera lasciammo tutto, tranne la
nostra camera da letto e, per
un periodo, ci accontentammo di una cucina
che per tavolo aveva delle
cassette da frutta, ma la nostra vita ci
guadagnò non poco.
É stata così negativa la mia esperienza di
vita in comune con lei
che, quando mia fi glia decise di sposarsi,
le feci una sola, accorata
raccomandazione:”Tu e tuo marito dovete andare
a vivere da soli!”.
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Un matrimonio
Venticinque anni io, ventiquattro lui. Io
avevo una dote e mi
sembrava una gran cosa, lui aveva l’essenziale,
cioè un paio di
pantaloni, una camicia, qualche paio di calze
e di mutande. Da
Tenca ci eravamo comperati gli abiti per
le nozze.
Soldi non ne avevamo, ma una Mercedes nuova
ci aveva portato in chiesa
e, subito dopo il rito nuziale, in via Ghisleri,
al ristorante Tre Poggi
dove l’Andreina aveva dato il meglio di sé
preparando piatti della cucina
cremonese: aveva cucinato le tre galline
che le mie zie le avevano dato
per noi, i marubini con la carne e persino
una torta. Il menù era arricchito
persino da salumi, formaggi e frutta e, per
lo stupore degli invitati, sulla
tavola luccicavano cucchiaini d’argento.
Era stato proprio un bel matrimonio, anche
gli ospiti avevano passato
una giornata diversa, con abbondanza di cibo
ed una buona dose di allegria.
Ero contenta, avevo fatto la mia scelta,
avevo preso una decisione
dopo tante incertezze. Quanto tempo ci avevo
pensato! Quante volte,
con le scuse più disparate, avevo respinto
la corte di quel ragazzo. Era
giovane, non aveva ancora fatto il servizio
militare e già veniva in casa dei
miei genitori. E’ vero, era un bel ragazzo,
ma, come arrivava, trovavo il
modo di scappare in un’altra stanza, in un
posto qualsiasi. Quando Dio
volle, ricevette la famosa cartolina e andò
a Cuneo a fare il soldato. Un
vero sollievo per me.
Cuneo sembrava alla fi ne del mondo, ma le
sue lettere mi arrivavano
ugualmente ed a me non andava di leggerle.
Avevo voglia di bruciarle.
Ci fu anche una licenza: comparve a casa
mia vestito da soldato.
Voleva stupirmi? Mi stupì di più mia madre
che acconsenti alla sua richiesta
di portarmi a ballare all’Odeon. E il mio
imbarazzo quando mi chiese
di baciarlo? Meglio non parlarne, meglio
tacere sulla sua promessa
“Quando ho fi nito il soldato, ti sposo”.
Cosa me ne importava? Avevo
ancora nel cuore una ferita, una delusione
amorosa che mi rendeva impossibile
vedere in quel ragazzo l’uomo della mia vita.
E poi…. sì, c’era
un e poi. Faceva il “ferraiolo”, ma non aveva
un posto di lavoro.
Tuttavia, un po’ alla volta, cominciai ad
accettare più volentieri i suoi
inviti: una passeggiata in canna della sua
bicicletta, gli incontri sul ponte
di Po, qualche pomeriggio all’Odeon. Scappavo
ancora, quando le sue
richieste mi sembravano fuori luogo, troppo
passionali e lo piantavo in
asso, lui e la sua bicicletta, tra i pioppi
del Bosco ex Parmigiano, correndo
a casa a piedi. Poi mi decisi. Se lo meritava
proprio. Aveva preso la
patente, poteva fare l’autista alla Tamoil.
Con il mio e con il suo lavoro
eravamo sicuri di poter affrontare la vita
insieme.
Perdonatemi se piango...lui non c’è più ed
io l’ho tanto amato.
da un racconto di Maria Pola
 
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