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15 Settembre, 2002
«Il mio numero di medaglia era il 276»
Le miniere di carbone del Belgio nei racconti dei minatori casalaschi

Quante strade portarono nelle miniere del Belgio? Dai campi e dalle officine del casalasco che non offrivano di che vivere o garantivano una stentata sopravvivenza, si arrivava Marcinelle per incontrare la uguale miseria e la somigliante umanità friulana e siciliana, fiamminga e polacca - l’Europa riunita nelle viscere della terra, per trarne profitto. Si arrivava a Marcinelle per trovare una vita - soldi per la famiglia rimasta in Italia, un paio di scarpe nuove, il cinema la domenica… Si arrivava a Marcinelle per poi trovare la morte.

Per il 1° Maggio del 1998 la Lega di Casalmaggiore del Sindacato Pensionati Cgil organizzò una mostra e presentò una “artigianale ricerca storica” - così l’hanno chiamata nelle parole conclusive, ed è “artigianale” nel senso più nobile della parola. A cura di Ettore Gialdi, il fascicolo “stampato in proprio” raccoglie 16 racconti di altrettante persone (o famiglie) emigrate alla fine degli anni ’40 e negli anni successivi in Belgio, per lavorare in miniera.

Riporto qui uno di questi racconti - la scelta non è stata facile dacché nessuna vita è più significativa delle altre - segnalando che il fascicolo è pubblicato sul sito dell’Archivio Storico della Cgil di Cremona [vedi link in fondo].

per l’Archivio Storico Cgil di Cremona
Teréz Marosi

***

DAVIDE GIALDI
Nato a Viadana il 17 dicembre 1929

Leggendo i manifesti affissi all’ufficio di collocamento, venni a sapere che in Belgio c’era lavoro nelle miniere di carbone. Fino ad allora avevo fatto un po’ di tutto: cavar piante, campagne allo zuccherificio, manovale al Genio Civile a mettere i “fascinon” (fascine di legna) ai pennelli del Po. Avevo anche lavorato nelle risaie del vercellese. Trovare lavoro non era certo facile e così decisi di partire. Avevo 17 anni e “obbligai” mio padre, che era contrario, a firmare l’autorizzazione ad emigrare minacciandolo viceversa di arruolarmi in marina.
Partimmo in un gruppo che comprendeva Adriano Biffi, Mino Incerti, Spartaco Torelli, Valentino Cirelli e Pietro Benvenuti. C’era anche Americo Aroldi che però venne scartato alla visita medica a Milano poiché gli mancava un dito ad una mano. Arrivammo a Charleroi con una tradotta di oltre mille emigranti alle quattro del pomeriggio del 4 dicembre 1947, giorno di Santa Barbara, festa dei minatori. Scendemmo alla stazione io, Biffi e Incerti mentre tutti gli altri proseguirono per il Limburgo. Ci caricarono su dei camion e ci portarono nella località di Marcinelle dove alloggiammo in una “cantina” gestita da un italiano mi pare di ricordare bergamasco. Successivamente, nel mese di marzo, poiché si spendeva troppo, trovammo una camera in affitto in un’altra località distante circa un paio di chilometri: Montigny sur Sambre, al numero 25 di rue de Cimetière.
Il 5 dicembre ero già al lavoro alla miniera numero 24 di Marcinelle al turno del mattino. Il primo giorno mi dissero di seguire un capo (era un italiano). Già sull’ascensore, che scendeva velocissimo, presi paura. Una volta arrivato al fondo percorsi a piedi circa tre chilometri in galleria. Nessuno ci aveva spiegato a cosa andavamo incontro. Pian piano vedevo davanti a me sparire gli altri ad uno ad uno e mi sembrava di essere rimasto da solo al buio. Non sapevo che in realtà ognuno era entrato in “taglia” al posto che gli era stato assegnato. All’inizio mi misero a fare il manovale a spingere il carbone sul “bac” che era una specie di canale di metallo che, azionato da stantuffi, spingeva in avanti il carbone a strattoni. Dopo circa due mesi e mezzo ho chiesto di passare minatore a cottimo. Lavoravo a 830 metri di profondità. Il mio numero di medaglia era il 276. Ho lavorato in taglie alte da 80 a 50 centimetri: a volte facevo fatica ad entrarci coricato e neppure la lampada ci entrava diritta.
In taglia prima di cominciare a lavorare, ci facevano arrivare sul “bac” il materiale necessario ad armare: i “bil”, gli “sclemp”, le gambe di ferro, i puntelli ecc. ecc. Questo materiale arrivava velocemente e bisognava stare molto attenti a non essere colpiti.
Dopo 20 giorni di lavoro ero già pronto per rientrare in Italia: l’ascensore che in un minuto scendeva a 800 metri di profondità, la paura dei crolli, una polvere che non si vedevano neppure le lampade, il frastuono del “motopiq” e del carbone trasportato sui “bac”... ma nessuno di noi voleva cedere per primo. Inoltre faticavo anche a guadagnare qualche soldo: prima la paga da manovale era molto bassa poi, come minatore a cottimo, essendo inesperto guadagnavo poco. Con quello che spendevo per la “cantina” non mi rimaneva quasi nulla e invece avrei voluto mandare qualcosa alla mia famiglia che ne aveva bisogno. Ho fatto il primo mese con un solo paio di scarpe che usavo sia in miniera che fuori: avevo sempre i piedi neri! I primi soldi che mandai a casa furono 1.500 franchi che mi aveva prestato il cugino di Adriano Biffi e che corrispondevano ad una discreta somma: se non ricordo male circa 20.000 lire dell’epoca.
Poi pian piano la situazione è migliorata: mi sono comprato un paio di scarpe e un vestito. Riuscivo a mandare a casa regolarmente una parte di quello che guadagnavo. Mia madre prima di spendere qualcosa, oltre lo stretto necessario per vivere, mi scriveva: comprò una stufa, un letto, dei materassi e il resto cercava di metterlo da parte.
I miei compagni di lavoro erano italiani (mi ricordo dei bergamaschi ma anche diversi cremonesi che erano arrivati qualche mese prima), greci, polacchi e belgi. Fino alla metà del 1948 c’erano anche dei prigionieri di guerra tedeschi. Per un po’ di tempo ho lavorato con due di loro. Ho lavorato anche con un russo (si chiamava Victor) prigioniero di guerra perché era stato collaborazionista.
Non ho mai subito dei seri infortuni. Una volta ero salito in cima ad una taglia per finire di armare in un punto dove c’era il “grisou”: mi sentii mancare i sensi ma fortunatamente scivolai verso il basso in un punto dove di “grisou” non ce ne era. Questo gas era pericoloso non solo per le esplosioni ma anche perché procurava l’asfissia. In questo modo era morto un mio compagno di lavoro originario del Lago di Garda. Al rientro in Italia io e Adriano Biffi andammo a trovare i suoi genitori.

Si lavorava sei giorni alla settimana. Alla festa andavamo a caffè, al cinema o a fare due passi a Charleroi dove compravamo della cioccolata e soprattutto delle banane che vendevano ad ogni angolo a poco prezzo.
Nell’agosto del 1949 decisi di ritornare in Italia: il lavoro in miniera era pessimo e non si guadagnava quello che speravo. Finito il servizio militare incontrai ancora molte difficoltà a trovare un lavoro e così, dopo la solita trafila di occupazioni saltuarie, decisi di andare di nuovo in Belgio: era l’agosto del 1955. Questa volta partii con Carlo Ballerini e Guglielmo Goffredi. Lavoravo sempre nella zona di Charleroi, in una miniera nella località di Fontaine l’Eveque. Ero già più esperto e in questa seconda occasione fu meno dura. Rimasi fino al gennaio del 1957 e poi decisi di smettere definitivamente.
I tre anni di lavoro in miniera (sempre in taglia) mi hanno procurato una silicosi del 26%.
Rientrato in Italia, lavorai per 11 mesi alla costruzione del ponte sul Po. Successivamente emigrai in Svizzera dove rimasi circa due anni, imparando il mestiere di stuccatore.

 


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