15 Settembre, 2002
L’ARCHITETTURA FASCISTA DI CREMONA (ric. n. 57) di M.De Crecchio
Per ben comprendere come girassero le questioni urbanistiche di Cremona durante il periodo fascista bastano poche righe del bel saggio dell’americano Francis J. Demers sulle “Origini del fascismo a Cremona” (Laterza 1979).
L’ARCHITETTURA FASCISTA DI CREMONA
RETORICA ED AFFARI
Per ben comprendere come girassero le questioni
urbanistiche di Cremona durante il periodo
fascista bastano poche righe del bel saggio
dell’americano Francis J. Demers sulle “Origini
del fascismo a Cremona” (Laterza 1979).
Scrive dunque il Demers: “Una volta al potere
i fascisti tennero saldamente in mano tutti
i fili della politica e dell’economia. Ogni
domenica mattina Farinacci presiedeva una
riunione organizzativa alla quale erano presenti,
il sindaco (in realtà allora denominato “podestà”)
e spesso anche Nino Mori, architetto (in
realtà ingegnere) fascista di Cremona e Giuseppe
Moretti, deputato al parlamento e organizzatore
degli agrari. In quella sede venivano prese
tutte le decisioni per la settimana successiva”.
In queste poche parole, singolarmente dovute
ad un diligente ricercatore straniero (gli
studiosi italiani sono al riguardo distratti
e i pochi testimoni cremonesi a suo tempo
intervistati si sono dimostrati particolarmente
reticenti a parlare di certi temi) è ben
sintetizzata la tristissima vicenda urbanistica
che la nostra città dovette attraversare
nel ventennio fascista.
Non si trattò certo di una vicenda culturale,
ma solo di una banale commistione di affarismo
e di burbanzosa retorica, sotto il “piccone
demolitore” voluto dalla quale furono distrutti
interi isolati del più intimo centro urbano
e persino ambienti di grande suggestione
(un lato di piazza Duomo, quasi l’intera
piazza Piccola, oggi Stradivari nonché edifici
di grande valore storico-documentario come
la graziosa casa-laboratorio ove Stradivari,
aveva prodotto i suoi immortali capolavori).
Il “comitato d’affari” farinacciano lavorava
grosso modo secondo questo schema collaudato:
-
individuazione di un grosso ente finanziatore,
di norma romano e spesso collegato al capitale
pubblico;
-
sbrigativo esproprio coattivo degli edifici
interessati dell’operazione immobiliare (demolizione
integrale e ricostruzione intensiva di interi
isolati urbani);
-
affidamento sistematico dei progetti all’ing.
Mori, ottimo organizzatore, poco appassionato
progettista, ma fedelissimo braccio operativo
del gerarca locale;
-
rapida esecuzione dei lavori, spesso neppure
preceduta dal rilascio di regolare licenza
edilizia da parte della mortificata autorità
comunale.
In queste condizioni, parlare di “qualità”
a proposito dell’architettura del periodo
fascista e, in particolare, di quella più
direttamente promossa dal potere politico
locale, è impresa invero problematica.
L’ingegner Nino Mori, pur dotato di spiccate
capacità manageriali, non era infatti in
grado da solo di esprimere un linguaggio
architettonico coerente e dignitoso di qualità.
La sua attività progettuale utilizzava sistematicamente
il contributo iniziale di qualche buon professionista
(l’arch. Rastelli per le prime opere, l’arch.
Baciocchi per la Galleria ecc.), professionista
che era poi destinato a restare nell’ombra
finendo per occuparsi soprattutto solo degli
interni. Le idee del suggeritore iniziale venivano di fatto rielaborate
dal vero progettista del regime: l’aiutante
di studio, il disegnatore Giulio Bentivegna,
invero abile a recuperare gli stilemi più
correnti del gusto “littorio”, quella rozza
contaminazione di razionalismo e di novecentismo
che andava allora di moda e nella quale eccelleva
Marcello Piacentini, l’architetto prediletto
da Mussolini che, proprio nella vicinissima
Brescia (piazza Vittoria), stava in quegli
stessi anni dando forma alle ridicole ambizioni
edilizie del regime.
Quasi nessuna delle opere ufficialmente ispirate
dal regime può salvarsi, in generale, da
questo giudizio impietoso: piazza Duomo è
ancora oggi deturpata dal brutto finto porticato
di ispirazione romana che caratterizza la
sede degli agricoltori; il palazzo dell’INPS
(oggi ospitante il cinema Tognazzi) richiama
solo goffamente certe soluzioni del Novocomum
di Terragni; i “birilloni” di granito rosa
che adornano la tristissima galleria XXIII
marzo (oggi XXV Aprile) ne accentuano in
modo tragicomico la goffa architettura; decisamente
orrendo risulta poi il “tricolore” della
facciata della Casa delle Corporazioni (oggi
Camera di Commercio), purtroppo esaltato
dalla brutta sistemazione recentemente realizzata
della piazza antistante.
Fatta questa premessa, certo non esaltante,
non si può però negare che anche il periodo
fascista abbia finito, magari involontariamente,
per lasciare ai posteri qualche isolato esempio
di buona architettura meritevole di ammirata
citazione.
A tale scopo è però necessario rivolgere
la nostra attenzione alle poche architetture
che, per i motivi più vari, sfuggirono alle
dirette cure del sopraccitato “comitato d’affari”,
in sostanza a quelle meno direttamente ispirate
dalle direttive farinacciane.
Possiamo allora citare con ammirazione il
rigore stilistico della chiesa di ispirazione
“francescana” che l’architetto Lorenzo Muzio
ebbe a costruire in onore a Sant’Ambrogio
nel quartiere omonimo.
È certamente assai piacevole anche l’ispirazione
“neo-futurista” con la quale l’architetto
Aldo Ranzi ebbe a progettare l’edificio destinato
a nuova sede sociale della Canottieri Baldesio.
Interessante risulta anche il singolare edificio
delle ex Colonie Padane, foggiato a modo
di piroscafo destinato a fendere le piene
del Po, dovuto all’ing. Carlo Gaudenzi e
purtroppo costruito, anch’esso, come il precedente,
in piena golena.
L’episodio architettonico migliore del periodo
fascista è però certamente il Palazzo dell’Arte,
l’unica delle grandi opere ufficiali del
regime che non sia di fatto stata realizzata
dall’ing. Mori, in quanto direttamente affidata
da Farinacci, sul finire della propria fortuna
politica, ad un giovane progettista meridionale,
Carlo Cocchia, a lui consigliato da un amico
gerarca napoletano certo dotato di buon gusto.
Tale palazzo, di evidente ispirazione mediterranea,
riscattò, usando virtuosamente il tradizionale
cotto cremonese, un tema difficilissimo quale
era quello tornare a riempire parzialmente
di architettura l’immenso ed atroce squarcio
urbano violentemente realizzato demolendo
il convento di S. Angelo.
L’autore, che diventerà poi docente al Politecnico
di Milano negli anni cinquanta e sessanta
ed amato maestro dei più bravi architetti
lombardi degli anni settanta e ottanta, evidenzia,
soprattutto nei dettagli esecutivi, una sensibilità
singolare, già aperta alle esperienze “organiche”
e “neorealiste” del secondo dopoguerra.
Purtroppo la lunga e devastante vicenda urbanistica
fascista ha lasciato non solo segni fisici
nella storia della nostra città ma, innestandosi
in una certa tradizione urbanisticamente
eversiva che era stata impostata dalla retorica
post-risorgimentale, ha consolidato un orientamento
culturale cittadino scarsamente attento alla
conservazione degli edifici storici. Anche
a tale vicenda va infatti in parte attribuita
la singolare insensibilità per i temi urbanistici
che caratterizzò il primo dopoguerra democratico
e persino certe ricorrenti intolleranze che
parte della stessa sinistra locale ancora
oggi manifesta quando da qualcuno viene invitata
a pensare con maggior prudenza alle nuove
ulteriori trasformazioni della città antica.
Arch. Michele de Crecchio
Cremona 24 novembre 2006.
 
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