15 Settembre, 2002
Il ritorno di Franco Guindani
Il treno correva su verso il nord sbuffando nella notte. T. sonnecchiava in un angolo del compartimento affollato.
Il ritorno di Franco Guindani
Il treno correva su verso il nord sbuffando
nella notte. T. sonnecchiava in un angolo
del compartimento affollato. Questo viaggio
sembrava non dovesse finire mai. Da più di
un mese avevano lasciato il campo di prigionia
in Marocco dove erano stati rinchiusi al
termine della campagna d’Africa, quando avevano
dovuto arrendersi, stretti nella morsa degli
Alleati e ormai abbandonati dalla madre patria.
Quanti anni erano passati da allora! Ma ora
il suo pensiero era rivolto al futuro: ci
sarebbe stato tanto tempo per ricordare,
o forse, e meglio, per dimenticare. Ora il
suo pensiero era per la giovane moglie che
non vedeva da quattro anni e quel figlio
che aveva conosciuto neonato e aveva visto
crescere solo in fotografia, in quelle rare
fotografie che la moglie era riuscita a fargli
avere.
Quante notti l’aveva sognato questo figlio,
ma ogni volta, quando tentava di abbracciarlo,
quando gli pareva di poterlo finalmente stringere
fra le braccia, ecco che il sogno, non sorretto
da un ricordo concreto, svaniva. Adesso suo
figlio aveva quasi quattro anni.
Chissà come avrebbe accolto questo sconosciuto
che entrava nella sua vita. Quest’uomo che
non c’era nei momenti delle sue prime grandi
conquiste: la prima parolina, i primi passi,
…
Basta! Troppa amarezza nell’anima.
Di sicuro la moglie aveva tenuto viva la
sua presenza, certamente anche lui lo stava
aspettando dopo il telegramma che annunciava
il ritorno imminente; ma una cosa è conoscere
un padre in fotografia, magari in divisa,
con l’aspetto marziale e spavaldo che si
usava in quelle occasioni, altra cosa vederlo
di persona, coperto da quegli avanzi di uniforme
che era riuscito a mantenere decenti ma con
i quali si vergognava di doversi presentare.
Vergognarsi di cosa? Era partito militare
di leva otto anni prima con la curiosità
giovanile di vedere il mondo, si era entusiasmato,
come tutti, all’idea della guerra, che lo
vedeva comunque al sicuro al Distretto militare
della sua città. Anche il trasferimento in
una città poco distante non l’aveva impensierito.
Dopo l’orario di caserma, godendo della relativa
libertà concessagli dal grado, era sergente,
riusciva spesso ad inforcare la bicicletta
per recarsi a trovare la moglie. Si era infatti
sposato durante il primo anno di guerra.
Doveva pedalare per una trentina di chilometri
ma era giovane ed allenato e il pensiero
della moglie che lo aspettava rendeva leggera
la fatica. Un po’ più pesante era il ritorno,
all’alba!
T. sorrise tra sè al ricordo. Erano stati
anni felici. Poi Bari e infine l’Africa.
La campagna militare era arrivata ad un momento
cruciale, urgevano rinforzi ed era toccato
a loro, non ancora impiegati in combattimento.
La nascita di suo figlio gli aveva probabilmente
salvato la vita. Era tornato in licenza breve.
Un viaggio lungo ma pieno di gioiosa aspettativa.
Alla stazione però aveva scorto i carabinieri
che fermavano i militari e revocavano le
licenze. Allora era scappato dal retro ed
era giunto a casa per strade secondarie.
Quando erano venuti a prenderlo tutto era
già predisposto, con la complicità del medico
condotto che aveva dichiarato moribonda la
neo mamma. Aveva così potuto concludere la
sua licenza con il battesimo del figlio appena
di otto giorni. Aveva scattato qualche foto
ed era ripartito, dolorosamente consapevole
della possibilità di non rivedere più i suoi
cari. Al ritorno in caserma il suo reparto
era già partito; lui l’aveva raggiunto in
aereo.
Venne poi a sapere che la nave sulla quale
avrebbe dovuto viaggiare era stata silurata.
Aveva già un debito con suo figlio.
Sua moglie gli aveva mandato una foto appena
era stato possibile: aveva circa un anno
allora il suo bambino. Lei lo reggeva in
piedi e lui guardava verso il fotografo,
così sembrava che lo guardasse. Quello sguardo,
per lui, era una richiesta: quando torni
papà!
Non è colpa mia piccolo! Io non sarei mai
più partito dopo averti visto! Le lacrime
tornarono a riempirgli gli occhi come tante
volte. Ma questa volta non erano più così
amare. Questa volta stava andando da lui.
Da loro! Il pensiero dei suoi genitori era
passato in secondo piano, anche se forse
era ingiusto non pensare che anche loro lo
stavano aspettando, magari con la stessa
ansia con la quale lui desiderava suo figlio.
Quale amarezza per quegli anni che gli erano
stati rubati! Ma non provava odio, neanche
per quell’anno in più che erano stati trattenuti
in prigionia dopo che la guerra era finita,
neanche per le notizie ad arte falsate ed
incattivite sulla situazione politica italiana:
i disordini, il rischio di una rivoluzione,
di una guerra civile. Forse era per questo
che li avevano trattenuti.
Ma questi erano pensieri che svanivano davanti
al ritorno tanto atteso.
A parte la fame non era stato così male in
campo di concentramento. Era stato mandato
al lavoro nell’officina di una impresa di
trasporti di proprietà di un italiano. Era
una brava persona, anzi un’ottima persona.
Aveva voluto bene ai suoi dipendenti prigionieri,
li aveva trattati umanamente e con lui in
particolare aveva instaurato un rapporto
quasi di amicizia. Addirittura aveva voluto
versargli, alla partenza, la paga alla quale
avrebbe avuto diritto come lavoratore libero.
Doveva scrivergli per ringraziarlo di tutto.
Portava con sé un bel gruzzoletto nella valigia
militare che teneva continuamente d’occhio;
all’arrivo a Napoli avevano infatti tentato
di rubargliela.
Bentornato in Italia.
E questi pensieri continuò a rivoltare tra
sé per tutto il viaggio finché il treno non
lo lasciò nella stazione della sua città.
Fu allora che, in mezzo alla gente, si vide
come realmente era: un reduce, con l’aspetto
trasandato del reduce e decise che non poteva
presentarsi così a sua moglie e a suo figlio.
Lì vicino abitava una famiglia che conosceva
e alla quale aveva reso alcuni piccoli servigi
quando era studente. Era infatti una famiglia
benestante del suo paese alla quale, venendo
in città ogni giorno per frequentare la scuola
professionale, ormai tanti anni fa, aveva
portato spesso un pentolino del latte della
loro stalla. Erano brave persone, l’avevano
già aiutato una volta e di sicuro l’avrebbero
fatto ancora. Fu così infatti. Gli fecero
fare un bagno e lo rivestirono, se non proprio
alla moda, almeno in modo decoroso.
Fu così che arrivò al paese che quasi non
riusciva più a respirare. Avrebbe voluto
che la corriera volasse ma nello stesso tempo
aveva anche paura di quell’incontro che era
per la vita.
Lo vide subito il suo bambino in braccio
ad una zia. Sua moglie stava arrivando più
indietro, ma il bambino aveva voluto andare
avanti, era tutto il giorno che chiedeva
di lui, che lo aspettava.
Venne a sapere in seguito che anche nei giorni
precedenti il bambino si era fatto portare
alla corriera; addirittura un giorno ci era
andato da solo e a chi gli chiedeva:- Cosa
fai qui? - rispondeva: - Aspetto il mio papà.
Un groppo gli chiuse la gola e non sentiva
neppure la forza e il coraggio di prenderlo
in braccio.
Il bambino si era messo a piangere e lui
sperò che fosse, come era, per l’emozione
e non per paura.
Si lasciò trascinare in casa e abbracciò
tutti. La casa era piena di gente, tutto
il paese era venuto a salutarlo. Aprì la
valigia ed offrì a suo figlio i datteri che
gli aveva portato dal Marocco. Abbracciò
sua moglie e i suoi genitori, poi si sedette,
appoggiò le braccia sul tavolo, abbassò la
testa e pianse tutte le lacrime che per quasi
quattro anni aveva trattenuto.
Più tardi, quando tutti se ne furono andati,
chiese a sua moglie il diario sul quale per
anni aveva sfogato le sue giovanili emozioni
fino alla partenza per il militare. Lo prese,
lo portò in fondo all’orto e gli diede fuoco.
Lo stette a guardare fino all’ultimo, bruciava
con quelle pagine la sua giovinezza.
Una vita era finita, era ora di iniziarne
un’altra.
Franco Guindani
 
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